Racconto
E tutto, nell'aria
profumata dalla terra
ebbra di amore, dal
mare ebbro di
vento e di sole,
tutto mi diceva
con voce così dolce,
così forte: "Non v'è
che questa vita, non
v'è che l'amore... ".
(A.
Fogazzaro)
Era mezzanotte quando
il treno è arrivato.
Nella luce dei
lampioni della stazione ti ho visto affacciato al finestrino, già pronto
per scendere. Come era strano vederti arrivare! Questa volta eri tu che
venivi da me e non mi sembrava ancora possibile che fosse accaduto. Ho
guidato la macchina in una corsa morbida lungo i viali oscuri e deserti,
fino a casa mia. Il giorno dopo saremmo partiti per quella delle
vacanze. C'è stato il bagno caldo e la tua impazienza di mostrarmi i
regali che avevi portato, altri e costosi dopo quelli che mi avevi già
dato a Parigi, e una tisana per il tuo sonno. Eri un po' nervoso, come
impaurito, anche se eravamo soli in casa. Ti avevo riservato la mia
camera e quando ti sei coricato tra le lenzuola azzurre ti ho preso il
capo tra le mani: «Sai Gabriel» ti ho detto, «mi sembra che sei sempre
stato qui: è così naturale averti a casa!». «Gracias» hai detto
finalmente sorridendo e rilassandoti. «Dormi bene». Ho spento la luce e
sono uscita piano. La casa per l'estate,
che prendevamo in affitto ormai da alcuni anni, era in un paesino
affondato nelle pinete. Offriva il vantaggio di un ambiente tranquillo e
allo stesso tempo non era distante dal mare e dalla città. Il panorama
da lassù era bellissimo: si vedeva l'ampia conca del porto, la città
circondata dal grande anfiteatro di colline verdi e, dietro queste,
alte, le montagne di roccia bianca e grigia.
La casa era molto
antica, come tutto il paese, ed era stata ristrutturata e rimodernata al
suo interno solo di recente. I muri esterni erano fatti di pietre grigie
di arenaria, squadrate e tenute insieme da una malta di calce e sabbia.
Era vietato intonacare le case all'esterno. C'erano poche eccezioni che
contrastavano col resto dei muri in pietra. Noi avevamo scelto questa
anche perché era l'ultima alla fine di una stradina lastricata e davanti
non aveva che qualche campo con delle viti, molto verde e tutta la vista
aperta sulle pinete e sul grande panorama. Ci sentivamo piacevolmente
isolati, pur appartenendo al paese. Avevamo una camera da letto e una
sala molto vasta e un bagno moderno aggiunto da poco. Fuori c'erano una
terrazza e un giardino con dei ciliegi e altri alberi da frutta e piante
di girasole le cui teste pesanti si reclinavano fuori dalla palizzata di
legno vecchio. Una vite a pergola ombreggiava l'ingresso. La stanza da
letto era sopra la sala e si raggiungeva con una scala esterna che
finiva sulla terrazza, sotto la quale era stato ricavato il bagno. A te
avevamo dato il letto di mio fratello al piano di sotto, nell'angolo più
intimo della vasta sala, vicino al caminetto. Dietro una credenza
antica, che arrivava quasi al soffitto, e una tenda a fiori, c'era
l'angolo del cucinino con l'acquaio di marmo bianco e i fornelli a gas.
Il resto dello spazio, sotto la finestra, era occupato da un tavolo
massiccio e rettangolare attorno al quale prendevamo i pasti. La sala
era imbiancata a calce ed era molto fresca anche nelle ore più calde del
giorno. Mia madre ed io occupavamo un grande letto matrimoniale al piano
di sopra, nella camera arredata in stile tradizionale, nuova, ma un po'
fuori moda. C'erano un armadio a specchi e una cassettiera con il
ripiano di cristallo color oro opaco. I muri erano rosa e il letto era
coperto di raso giallo. Appena ne prendevamo possesso facevamo sparire
dentro i cassetti tutti gli orribili soprammobili che la padrona di casa
disponeva in giro. Mio fratello trascorreva le vacanze con la fidanzata
e se arrivava per una visita occasionale tiravamo fuori una branda
pieghevole e la mettevamo in un angolo per lui. Mia madre ti ha accolto
con le poche parole di spagnolo che aveva imparato: "Bienvenido, buenas
dias, buenas noches, ha comido bien?" Per il resto ha lasciato fare a me
e noi parlavamo inglese per tutto il tempo, cosicché nel paese nessuno
all'inizio si è accorto che tu fossi spagnolo e ti chiamavano
"l'inglese". Credevano che fossi il figlio dei signori che mi avevano
ospitato l'estate precedente, quando ero andata in Inghilterra.
Eri molto stanco, i primi giorni, perciò non andavamo ancora alla
spiaggia e dopo i pasti ti lasciavamo nella sala fresca e buia a
riposare. La sera, dopo cena, ci ritiravamo molto presto. Con il sonno
ed il riposo ti sono tornate le energie. La mattina io portavo giù i
miei libri e studiavo, tu andavi a passeggio nelle pinete e mi
raccontavi, al ritorno, che ti eri messo a fare esercizi di respirazione
a torso nudo e flessioni e che avevi preso il sole. «Pués el aire del
pinar es bueno» mi dicevi. «Mi sembra di essere tornato nelle mie pinete
come quando ero ragazzo, anche se ora il profumo non lo sento più».
Finalmente alla spiaggia ora potevi nuotare insieme con me. Per la prima
volta scoprivamo i nostri corpi liberi dagli abiti. «Sai che sembri
ancora più giovane, così?» mi dicevi. «E il verde dei tuoi occhi è più
chiaro». Ridevo: «Sarà il riflesso del mare». «Ligarta, eres corno una
ligarta» mi canzonavi, mentre me ne stavo appiattita sulla sabbia
assorbendo il sole da tutti i pori, immobile. Tu, invece, non sopportavi
il riverbero che per pochi minuti e poi ti rifugiavi sotto l'ombrellone.
«Che razza di spagnolo sei?» ti pizzicavo a mia volta. «Invece di essere
bruno hai la pelle bianca come quella di una donna». Guardavo il tuo
petto glabro e liscio, le spalle piene, le braccia leggermente dorate
dove le maniche corte della maglietta le lasciavano scoperte durante il
giorno. La mia pelle, invece, diventava sempre più abbronzata. Ero
davvero felice come una lucertola al sole. «Gabriel, mi porterai al mare
quando saremo in Spagna?» ti ho chiesto una volta un po' preoccupata. «Qué
va. Certo che possiamo andarci». All'improvviso mi era balenata davanti
agli occhi l'immagine di un "piso" in un grande palazzo moderno, davanti
alle cui finestre c'erano altri palazzi tutti uguali e asfalto e cemento
e pochi alberi nella periferia bruciata di Madrid. E soprattutto nessun
orizzonte, nessuna linea azzurra, nessun luccichio d'acqua sotto la luna
o sotto il sole, nessun fiutare di salmastro quando il vento veniva da
sud. «Potrei farmi trasferire a Barcellona» hai detto tu. «È facile
ottenere il trasferimento. Ti piacerebbe? Dopotutto Madrid non è la mia
città». «Oh, Gabriel, sarebbe magnifico. Sarei anche un po' più vicina
all'Italia...». «Tutta la Spagna ha belle città sul mare» hai detto tu
orgoglioso: «le spiagge sono immense». Felice mi sono allungata di nuovo
sull'asciugamano di spugna. Ora sognavo le spiagge dorate del
Mediterraneo e mi sentivo più tranquilla. Le dita dei piedi scavavano
automaticamente nella sabbia calda e pensavo che niente al mondo mi
piaceva di più che stare al sole e chiudere gli occhi allo sfavillio
riverberante delle onde e scavare la sabbia calda con le dita dei piedi.
Più tardi, mi sono abbandonata ad una lunga nuotata oltre il molo di
protezione. Girandomi sul dorso a riposare ti ho visto fermo, in piedi
nell'acqua che ti arrivava al petto, mentre mi guardavi con aria
smarrita e preoccupata. Allora mi sono ricordata che avevi imparato a
nuotare in piscina, a Madrid, e che questo era il tuo primo vero
incontro con il mare. Intenerita sono tornata indietro. Mi hai preso tra
le braccia grondante: «Non ti allontanare mai da me» hai detto. Il tuo
bacio sapeva di sale. Tenendoci per mano siamo tornati a riva. È stato
il giorno che mia madre è andata in città che sei salito al piano di
sopra mentre facevo la siesta pomeridiana. Ti sei sdraiato sul letto.
«Voglio vedere come è fatta una donna» hai detto. «Ti prego, lasciami
vedere, così come io ho fatto con te a Parigi». Mi è sembrata una
richiesta legittima. «Va bene, però tu non toccare» ti ho detto.
Le mutandine si sono arrotolate sotto le mie mani mentre inarcavo i
fianchi per toglierle. È apparso il triangolo di peluria del pube; poi,
aiutandomi con le mani e divaricando le gambe, ho cercato di mostrarti
come ero fatta. Aguzzavi lo sguardo esaminando in silenzio come se fossi
stato un dottore. «Com'è diverso da come immaginavo» hai detto infine.
Hai messo un dito sull'imene spingendo un poco. «No» ti ho detto,
tornando a serrare le gambe. «Non voglio farti niente. Grazie per
avermi lasciato vedere». «Sai che sei la prima persona a cui l'ho
permesso? Neppure il dottore, né mia madre sanno come sono lì, eccetto
che da piccola, penso». Allora, mentre mi aiutavi ad infilare
nuovamente le mutandine ti sei chinato ed hai posato un bacio lievissimo
sul pube, dove il bianco confine della carne cominciava a confondersi
con la linea del pelo. È stato come un tocco di farfalla e così
tenero che neppure sulla bocca mi avevi mai baciata così. Sei
scivolato di nuovo accanto a me. «Senti, Clara, ora non posso
andarmene dopo averti vista così. Devo fare qualcosa. Aiutami. Non aver
paura. Prendi qualcosa per coprirti la maglietta. Forse ti bagnerò». Non
riuscivo a capire che cosa avessi intenzione di fare, ma sono scesa dal
letto a piedi nudi e, cercando in un cassetto, ho trovato un piccolo
asciugamano di spugna. «Va bene, questo?». «Sì. Vieni accanto a
me, ora». Ti eri tolto i calzoni e la maglietta e giacevi bocconi sul
letto in slips e canottiera come me. Quando mi sono sdraiata accanto a
te mi hai detto sollevandoti: «Ecco, ora stendilo qui». Mi hai
aiutata a sistemare l'asciugamano di traverso sui fianchi e poi il peso
del tuo corpo si è abbattuto su di me. La tua bocca ha cercato la mia,
una delle tue mani febbrili mi ha scoperto il seno. Già succhiavi
avidamente. Sentivo i tuoi fianchi alzarsi ed abbassarsi rapidi e
oltre le tue spalle ho visto la curva bianca delle tue natiche.
Avevi abbassato gli slips fino a metà coscia e la mano che non mi
stringeva spariva sotto il tuo ventre. Ansavi e gemevi e di dentro il
tuo petto veniva un suono strano, straziante e supplichevole, come di
morte e di desiderio e d'estasi. Poi un silenzio improvviso e
vasto come quando dopo le prime avvisaglie di tuono dentro i boschi le
voci degli uccelli e lo stormire delle fronde tacciono insieme e per
pochi attimi tutto è nell'aspettazione della pioggia. Ho
trattenuto il fiato aspettando. Uno spruzzo tiepido e leggero mi ha
bagnato un fianco penetrando attraverso la sottile maglietta. Sotto i
tuoi movimenti frenetici l'asciugamano era caduto e non mi aveva
protetta. Con un gemito ti sei abbattuto nuovamente su di me,
nascondendo il volto nell'incavo della mia spalla. Ti ho lasciato per
alcuni attimi così, poi, contorcendomi, ti sono scivolata via di sotto.
La mia maglietta aveva una chiazza larga e sotto sentivo la pelle farsi
appiccicosa. Ti eri coperto col lenzuolo e il pallore del tuo viso era
impressionante. «Ti senti bene?» Ti guardavo preoccupata.
«Sì, lasciami solo un po' riposare». Sorridevi stancamente.
Allora ho raccolto le mie cose e l'asciugamano. In vestaglia sono scesa
nel bagno.
Lì mi sono lavata, ho
indossato della biancheria pulita e mi sono rivestita. Poi sono andata a
sedermi fuori sotto la pergola, al fresco, aspettandoti.
L'unica sensazione
che non riuscivo a togliermi di dosso era quel bacio così dolce, che
avevi deposto sul mio pube. Sotto i vestiti la mia carne ne rabbrividiva
ancora.
Se il tuo primo
bacio, a Londra, mi aveva delusa, capivo che questo, al contrario, non
lo avrei mai dimenticato. Avevi finalmente capito che eri stato il primo
per me.
I giorni estivi
scivolavano via lunghi e dorati. C'erano le mie mattinate di studio e le
tue solitarie passeggiate nella pineta.
Le corse alla
spiaggia nei pomeriggi assolati. Nel giardino di fronte alla casa le
ultime ciliege disfatte cadevano sul terreno soffice e asciutto e un
esercito di formiche e di vespe lavorava alacremente. I grappoli di uva
verde si gonfiavano sotto la pergola.
I girasoli pesanti,
colore dell'oro brunito, si sgranavano lentamente dietro la palizzata.
A sera la luna
spuntava sopra il profilo nero delle pinete: gialla, grande, liquida,
nell'indaco cupo del cielo.
Avrei voluto che una
volta mi prendessi per mano e mi dicessi: "Andiamo a vedere la luna sul
mare." Era bello vederla da lassù, ma non l'hai mai detto.
Dopo cena ti
sprofondavi nella poltrona di vimini davanti a casa. Io stavo seduta sul
muretto di pietra che conservava traccia del calore diurno. Parlavamo o
restavamo in silenzio a guardare la luna che saliva al centro del cielo.
Mia madre partecipava
poco alle nostre conversazioni, sebbene io facessi da interprete.
Si ritirava prima di
noi, raccomandandomi di non attardarmi troppo.
In una di queste
sere, non so come eravamo tornati sull'argomento, hai detto:
«Se tu avessi fatto
con un altro ragazzo quello che io ho fatto con Joy, la profesora, ti
avrei lasciato».
«Sono sempre in tempo
a fare altrettanto!» ti ho risposto e senza darti il bacio della buona
notte ho preceduto, una volta tanto, mia madre di sopra.
Il mattino seguente -
scendevo sempre io per prima a preparare la colazione - non mi sono
avvicinata al tuo letto.
Con un secco "Good
morning" sono sparita dietro la tenda del cucinino. Avevo preso
l'abitudine di servirti la colazione a létto su un vassoio. Mangiavi
sempre così poco!
Quando sono
ricomparsa coi bricchi del thé e del caffé caldi ho sentito il tuo
sguardo seguirmi, mentre tiravo fuori tazze e piattini dalla credenza.
Le altre mattine, al
mio irrompere fresca e profumata di lavatura recente, c'era la corsa al
tuo letto, lo scompigliarti i capelli, lo stringerti a me ancora tiepido
di sonno, che ti lasciava sul volto una traccia d'infanzia, di dolcezza,
che scompariva subito al tuo frugare impaziente, allegro, tra le pieghe
della mia camicetta e: «Dame la leche. El tino quiere su leche por la
mariana».
Afferravi la piccola
mammella bianco rosata, col capezzolo rosso subito erto e vi imprimevi
la bocca golosamente. Mi pungevi con la barba dura. Mi ricomponevo alla
svelta ributtandoti ridente sul guanciale e poi mi affrettavo qui e là
con le tazze e la teiera. Ti lasciavo per pochi minuti: il tempo di
portare il thè alla mamma, al piano di sopra, e poi mi sedevo al tavolo
mentre tu finivi di bere il tuo caffè col latte e sbocconcellavi i
biscotti o la fetta di dolce avanzata la sera prima. Mentre rigovernavo
e rifacevo il tuo letto tu andavi nel bagno a raderti.
Ora, mentre mi
avvicinavo col vassoio, tu hai detto: «Niente bacio stamattina?»
Tenevi le mani sotto
le lenzuola, nonostante ti fossi sollevato a sedere.
«Non te lo meriti».
«Mi sembri un
sergente! Anche ieri sera hai parlato come un sergente».
«Se in un altro modo
non riesco a farmi capire...». Puntiglioso non tiravi fuori le mani per
prendere il vassoio,
così te l'ho deposto
sulle ginocchia e sono tornata al tavolo davanti alla mia tazza.
Hai riso:
«Ma guarda un po'!»
hai detto.
La pace l'abbiamo
fatta molto più tardi, quando hai ammesso finalmente:
«Hai ragione tu,
uomini e donne hanno gli stessi doveri e gli stessi diritti».
I bisticci erano
rari, eppure silenziosamente violenti da parte mia. Non sempre riuscivo
a dirti quello che pensavo e mi chiudevo nei miei silenzi amari, quando
qualcosa mi aveva offeso.
Come quella volta che
una mia amica è venuta a trovarci col fidanzato. Lei indossava una
minigonna e sotto i pini dove eravamo andati in cerca di refrigerio,
cambiando continuamente posizione con cento scuse, agitava le gambe, che
aveva molto belle, fino a far intravedere, baluginante, il triangolo
bianco delle mutandine. Mi aveva confidato, in disparte, di aver
bisticciato col fidanzato e forse c'era nel suo atteggiamento qualcosa
di provocatorio nei suoi confronti, specie quando si è accorta che tu
seguivi come affascinato la danza delle sue gambe abbronzate senza
distogliere neppure un attimo lo sguardo.
Sapevo che se io
avessi indossato una minigonna lo avresti considerato un affronto
personale.
Solamente quando gli
amici se ne sono andati, dandoci appuntamento per la sera, al locale
dove si ballava, ti sei accorto di come era il mio viso.
Non c'era gioia,
quella sera, mentre mi vestivo per andare al nostro primo ballo
d'estate; ballo a cui mi accompagnavi dopo le insistenze di altri e non
per tua iniziativa. Eppure sapevi quanto ci tenessi. Eri molto elegante
nell'abito nuovo, blu, che avevamo acquistato insieme a Parigi, ma io
non riuscivo a sorriderti.
Più tardi, seduti
ancora soli con i festoni di lampioncini colorati sulle nostre teste e
altre luci che si riflettevano nell'acqua tutt'intorno, mentre io
fissavo ostinatamente un punto davanti a me, ho sentito il tuo braccio
che mi cingeva le spalle e l'alitare del tuo volto che si chinava
dolente sul mio
«Clara, lo sai che
sono tuo e solo tuo e tuo per sempre».
Questa volta non
c'era stato bisogno di fare il sergente e, senza neppure che avessimo
sfiorato l'argomento, eri tu che mi chiedevi spontaneamente scusa.
Quando gli altri sono
arrivati, con molto ritardo, il mio rancore era svanito e del resto,
allacciati strettamente sulla pista semibuia, ci hanno lasciati quasi
sempre soli al nostro tavolo per tutta la serata.
Abbiamo ballato anche
noi, i balli lenti che sapevamo fare, per un'ora circa fino a che non
hai detto:
«Andiamo sulla
terrazza, fa troppo caldo qui».
Passando all'aperto
hai rubato un geranio rosa da un vaso e me l'hai offerto.
La terrazza era
deserta, con le sedie a sdraio allineate e gli ombrelloni chiusi.
Ci siamo seduti.
La tela della sedia
era umida, di quell'umido salmastro di cui si impregnano le cose, a
sera, nei posti di mare, e la sentivo fresca sotto l'abito sottile.
Ti sei allentato la
cravatta respirando profondamente. Eri molto pallido, come ti avevo
visto quella volta, tra le lenzuola. «Stai male, Gabriel?».
Sorridevi stancamente
come quella volta.
«No, no. È stato solo
il caldo. Qui si sta bene».
Ti sei sistemato
sulla sedia a sdraio e mi hai preso una mano. Poi hai reclinato il capo
di lato chiudendo gli occhi.
Davanti a noi,
nell'ansa profonda della baia, la luna disegnava un solco dorato
sull'acqua. C'era una leggera brezza e la spuma delle onde di un color
lattescente e azzurrognolo si riversava sulla spiaggia nera. Sentivo il
mare insinuarsi cupamente fin sotto la terrazza dove eravamo.
Qualche altra coppia
fuggiva dall'interno del locale in cerca di refrigerio e di intimità.
-Sentivo risatine nel
buio mentre fiammelle di accendini guizzavano e si spegnevano qui e là,
rivelando per un attimo le persone in atteggiamento confidenziale, i
visi chini, le sigarette tra le dita. Con la mano abbandonata tra le tue
e l'altra che giocherellava col fiore, facevo fatica a trattenere i
piedi dal seguire il ritmo della musica che giungeva fin lì, smorzata.
Quando i suoni lenti, sincopati, hawaiani di "Ebb Tide" si sono levati
ad evocare languide spiagge da Mari del Sud mi sono girata dalla tua
parte. Le ciglia chiuse ti disegnavano una barra scura sul volto.
«Gabriel, dormi?».
Hai aperto gli occhi
in fretta.
«No, no».
Sorridevi. Poi una
smorfia:
«Qué malo soy. Ti sto
rovinando la serata».
Mi hai dato un bacio
mentre le ultime note morivano come un sospiro.
«No, no» ho mentito.
«Si sta bene qui. Riposati pure».
Gli amici sono venuti
a cercarci molto più tardi. Giovani, ansanti, vagamente traspiranti:
«Eccoli qui i due
piccioncini dove si sono rifugiati a tubare!». Lei si è lasciata cadere
nella sdraio alla mia sinistra "Come sono stanca Clara! Quanto ho
ballato! Dove hai preso quel fiore?"
«Lo ha rubato
Gabriel».
«Tu non hai mai di
queste attenzioni per me» ha detto facendo il broncetto al fidanzato.
«Provvedo subito» ha
detto lui alzandosi.
Poco dopo era di
ritorno con un altro fiore di geranio. «È tutto spelacchiato» lo ha
rimproverato lei. «L'ho preso al buio...»
Hanno continuato la
loro schermaglia per un po' e poi ci siamo avviati tutti e quattro verso
le macchine.
«Torniamo qualche
altra volta» hanno proposto. «Volete?». «Sì, sì» ho risposto vagamente,
ma sapevo che quello sarebbe stato il nostro primo e ultimo ballo
d'estate.
Nei giorni seguenti
hai detto di sentirti molto stanco e abbiamo sospeso le gite alla
spiaggia.
In verità mi ero
accorta, e anche mia madre me lo aveva fatto notare, che ti costringevo
ad una vita troppo movimentata.
Io scoppiavo di
energia: il mare, il nuoto, il sole, quel profumo di terra asciutta, di
erbe aromatiche e di pini decuplicavano le mie forze. Volevo farti
vedere tutto, dividere tutto con te.
Due volte la
settimana tornavo in città per prendere lezioni private di inglese e per
darne, a mia volta, ad alcuni studenti che mi raggiungevano a casa.
Ti portavo con me per
timore che ti annoiassi solo con mia madre. Per un'ora vagabondavi per
la città attendendo che terminassi la lezione. Ti piaceva: era una
piccola città tranquilla se paragonata a Londra o a Parigi o a Madrid.
Passeggiavi nei viali ombrosi e alberati, nei freschi giardini di fronte
al mare. Una volta mi hai raccontato ridendo che eri entrato in un bar e
avevi chiesto un caffé: ti avevano messo davanti la tazzina
dell'espresso nero e denso e tu non sapevi come fare per spiegare che
non era quello ciò che volevi. Ho riso anch'io e ti ho detto che avresti
dovuto chiedere un "cappuccino", per avere qualcosa di buono in una
tazza grande come quelle del caffé all'inglese o dei crémes di Parigi.
«Cappuccino,
cappuccino» hai ripetuto varie volte per memorizzare il nuovo nome e la
tua pronuncia era molto buffa.
Più tardi mi seguivi
a casa. Mentre io insegnavo ai ragazzi tu ti chiudevi nel salotto e
ascoltavi i miei dischi. Ripartivamo dopo mezzogiorno.
Avevamo fatto qualche
gita. Eri venuto a vedere la mia università e il posto di campagna dove
ero nata e avevo vissuto per quasi dieci anni - che tristezza per me la
grande casa chiusa che andava lentamente in rovina e il giardino e
l'orto pieni di rovi e di erbacce dove avevo giocato bambina come in un
Eden -.
Ora conoscevi,
inoltre, tutti i luoghi incantevoli lungo la costa.
Un giorno eravamo
partiti all'alba per una spiaggia che si raggiungeva solo dal mare,
oppure da un sentiero stretto e tortuoso che partiva dalle nostre
pinete. Era uno dei posti che
amavo di più: la spiaggia sassosa con enormi ciottoli levigati e rocce
rosse a strapiombo e scogli grigi dappertutto. Il mare così verde e
trasparente che veniva voglia dì berlo. C'era una specie dì grotta
fresca che si apriva all'estremità della. spiaggia e lì avevamo
sistemato le nostre provviste, vicino alla sorgente di acqua dolce che
sgorgava dalla roccia. Passava qualche barca di pescatori o di gitanti,
ma il posto era frequentato da pochi: troppo difficile l'approdo. Sdraiata accanto a te
nella grotta, con la roccia vasta sul capo e il mare scintillante
davanti a noi, al riparo da ogni sguardo indiscreto, mi sentivo morire.
Sotto il costume il mio corpo conservava ancora la traccia del bagno.
Sentivo il ventre e i seni freschi come il corpo di un mollusco appena
strappato allo scoglio e, come quello, salati alle labbra. Ho allungato
una mano abbronzata verso di te.
Tenevi le braccia
incrociate sotto il capo e gli occhi chiusi. Mi hai dato un bacio
distratto.
Sono fuggita su una
roccia alta, in pieno sole. Scottava. I gabbiani planavano in alto
cercando i loro nidi nella parete a picco che limitava la spiaggia per
tutta la sua lunghezza. Agavi azzurre e fichi d'India coperti di frutti
rossi e arancione svettavano contro il cielo terso. Respiravo il mare.
Riversa sulla roccia ho desiderato che il mio corpo divenisse parte di
essa e che il sole non finisse mai e che, con occhi di pietra, potessi
continuare a fissare tutto in eterno.
Più tardi sei venuto
a cercarmi, ma il sole era troppo forte per te. Sei sceso nuovamente
vicino all'acqua per rinfrescarti. È stato allora che un polipo ti ha
afferrato una caviglia con i tentacoli.
«Prendilo, prendilo
Gabriel!» ti ho gridato eccitata.
Ma al tuo movimento
brusco è scivolato via nascondendosi tra i sassi del fondo.
«Che cos'era?» hai
chiesto incuriosito e per nulla spaventato. «Una biscia d'acqua?».
«No, no» ho riso alla
tua inesperienza di mare. «Era un polipo. È buono da mangiare. E la
prima volta che mi capita di vederlo afferrare una persona. Di solito
fuggono». È stata una giornata
piena di "incontri" straordinari. Dopo il polipo è venuto un gabbiano a
dissetarsi alla sorgente e, più tardi, per la prima volta in vita mia,
ho visto un martin pescatore dalle piume incredibili, mentre volteggiava
sull'acqua bassa in cerca di pesciolini. Al tramonto la
risalita sul sentiero di roccia è stata faticosa.
In quei giorni avevi
anche sopportato l'incontro con i miei parenti che, incuriositi, erano
venuti per conoscerti.
Non potevano far
altro che sorriderti e stringerti la mano e scambiare qualche frase di
convenienza attraverso la mia traduzione.
Ti trovavano
simpatico e carino. Ripartivano in giornata, soddisfatti.
Con impazienza avevo
aspettato la visita dell'unico zio che parlava inglese. Veniva da
lontano, da un'altra città di mare dove si era sposato e in cui viveva
da tempo. Siccome non avevo padre ed era l'unico che potesse parlare con
te, mi ero aspettata che ti prendesse in disparte e che avreste fatto
una chiacchierata tra uomini e discusso del mio futuro. Avevo confidenza
con lui, ero stata spesso sua ospite e ci scambiavamo lunghe lettere.
Invece non è successo niente. Lo zio è arrivato elegante ed impeccabile
come sempre, accompagnato dalla moglie e dalla figlia. Mia cugina nel
giro di pochi anni, da bambina timida e dolce che ricordavo, si era
trasformata in una splendida diciotténne. Ora portava i lunghi capelli,
che erano stati castani, striati di biondo e il suo corpo splendido ed
abbronzato aveva più curve di quanto non ricordassi.
I suoi grandi occhi erano verde-mare, colore abbastanza comune in
famiglia, ed era truccata pesantemente per la sua età. Portava un abito
cortissimo, senza maniche. È stato come se vedessi un'estranea.
Mio zio non aveva occhi che per lei, era la sua unica figlia, e sembrava
che fosse venuto a trovarci solo per esibirla al resto della famiglia.
Sua moglie parlava fitto con mia madre, che non vedeva da molto tempo, e
fumava.
C'è stato uno scambio di frasi banali. Dopo la prima reazione mi ero
attirata la cugina sulle ginocchia. Avevo sempre provato un grande
affetto per lei, ero stata per molto tempo una specie di sorella
maggiore.
«Oh, Clara» ha sorriso la zia vedendo il gesto. «Ti ricordi di quando
era: bambina eh? E di tutte quelle favole che le raccontavi!».
Più tardi ci siamo fatti delle foto. Gruppo di famiglia. Erano venute le
altre zie a salutare il fratello, e mio cugino e mio fratello ad
abbracciare gli zii e la cugina.
Quando se ne sono andati ti ho chiesto esitante: «Ti è piaciuta mia
cugina? È uno splendore vero?». Tu hai alzato le spalle:
«No me gusta» hai detto facendo la tua solita smorfia con le labbra. «No
sé. È bella, pero...».
Scuotevi il capo.
È troppo truccata. Mi piace che tu non usi nessun cosmetico e che quando
ti bacio la tua bocca sia pulita. Vien voglia di mangiarti tutta
intera».
Forse tutte queste
cose ti avevano stancato, così ho deciso che ti avrei lasciato
finalmente in pace. A volte però non resistevo e portavo i miei libri
nella pineta e, mentre tu stavi sdraiato con le braccia incrociate sotto
la testa e gli occhi chiusi, cercavo di studiare. Ricordi quella volta
che per fare un letto morbido di erbe su cui farti riposare mi sono
tagliata con le felci?
La mano ha cominciato
subito a sanguinare abbondantemente.
«Diós mio» hai detto
tu, «hai la pelle così delicata!».
Hai succhiato le mie
ferite e poi mi hai fasciato la mano col tuo fazzoletto, che ha
trasudato chiazze rosse.
Quando, dopo giorni,
la carne si è rimarginata sono rimaste delle deboli striature bianche e
tu ogni tanto ti portavi alle labbra il palmo della mia mano e lo
baciavi in un modo che mi dava i brividi lungo la schiena.
Prima che tu
lasciassi Parigi ti avevo chiesto di portarti dietro tutte le lettere
che ti avevo inviato, perché avevi trovato difficoltà di interpretazione
in alcuni punti e io ne avevo trovate nelle tue.
Volevo riaprire,
chiarire, discutere con te problemi che mi sembravano importanti e sui
quali non ci trovavamo sempre d'accordo.
Ora che eri con me mi
assaliva a volte l'antica timidezza dei nostri primi incontri e non
riuscivo a parlarti come volevo. Pensavo che, ricominciando da una frase
delle nostre lettere, un dialogo poteva aprirsi tra noi.
Avevo catalogato le
mie e le tue lettere in gruppi; intervallati dagli spazi vuoti dei
nostri incontri, e,ognuno di essi era tenuto insieme da un piccolo
elastico colorato.
Seduto di fronte a
me, nella pineta, ascoltavi le parole che tante volte avevamo letto e
riletto nei silenzi delle nostre camere, ma non riuscivi più a
ricordare, quando mi interrompevo, che cosa avessi voluto dirmi
esattamente in qualche frase su cui ti chiedevo spiegazioni.
«Non so» dicevi
stancamente. «Sono confuso. No sé, no sé».
Ti portavi la mano
alla fronte come un malato. Allora ho messo via tutte le lettere,
vergognandomi di essere ricorsa a quel mezzo arido e pedante per parlare
con te delle cose che ci riguardavano.
Fallito questo
tentativo mi sono accorta che avevamo ben poco da dirci e che ora
passavamo lunghe ore nelle pinete, fianco a fianco, guardando di fronte
a noi, in silenzio.
L'unico contatto tra
noi erano i baci improvvisi, distratti, privi di significato, che mi
davi ad intervalli come per un dovere e, a volte, il rapido palpare
sugli abiti leggeri.
Mi lasciavi confusa,
inconsciamente eccitata e inconsciamente - ché allora non sapevo di
esserlo - insoddisfatta. Un giorno dopo l'altro il mio viso si è coperto
di bolle piene d'acqua, che scoppiavano ed essiccavano in una vasta
crosta rosso scuro.
Ero spaventata, non
mi era mai accaduta una cosa simile, neppure da adolescente quando la
maggior parte delle ragazze soffrono di acne.
Ho pensato che forse
mangiavo troppi gelati, o pizza, o altre cose in cui eccedevo. Ho
provato creme, mi sono cosparsa il volto di polvere di riso prima di
coricarmi. Tutto sembrava inutile.
Mi sentivo orribile,
come un'appestata. Mi è tornato in mente che due bollitine simili, due e
non di più, mi venivano sotto l'orecchio ogni volta che tornavo
dall'aver trascorso una settimana con te. Le avevo sempre attribuite al
cambiamento d'aria, alla cucina francese... Sparivano in fretta senza
lasciar tracce.
Ora tu mi guardavi e
dicevi, non so per quale intuizione, che ti rivelava improvvisamente
uomo ai miei occhi:
«Sono scherzi del
sangue. Es
demasiado calor en la sangre».
Sorridevi malizioso
negli occhi e allora ho capito quello che volevi dire e che anch'io, pur
confusamente, avevo cominciato a sospettare, dopo che il mio corpo già
l'aveva compreso da tempo.
Dopo una settimana la
pelle del mio viso è tornata normale ed ho ricominciato ad esporla al
sole, che ha cancellato ogni traccia.
Con la metà di agosto
si era levato un forte vento che soffiava impetuoso spazzando il cielo.
Bastava cercare un posticino riparato tra le rocce o a ridosso di un
muro per illudersi che il calore dell'estate non fosse ancora finito. Il
nostro posto preferito, in quei giorni che prelude vagamente
all’autunno, era la torre del vecchio mulino al margine della pineta.
Era una costruzione
cilindrica, di vecchia arenaria dorata dalle intemperie, con una scala
in pietra ormai in rovina, che portava al piano superiore. Nei pressi
crescevano due lecci dall'ampia chioma verde-scuro.
Ci mettevamo a sedere
con la schiena contro le pietre calde, sul lato dove non arrivava il
vento. I lecci mandavano un
rumore come di scroscio d'acqua. Le mani intrecciate attorno alle
ginocchia, guardavamo in silenzio la distesa d'erba alta, secca,
frusciante, davanti a noi; l'eterno lavorio dei formiconi neri sulla
terra arida, la danza improvvisa e traballante di una farfalla dalle ali
brune screziate di bianco e arancione. Una siepe di pini
bassi e di cespugli ci impediva la vista del mare. Intorno a noi il
canto monotono e alto delle cicale, lo schiocco rapido di una pigna che
si apriva per lasciar cadere i semi alati nel vento. Il silenzio
continuava fra noi. Eravamo gentili, ci preoccupavamo reciprocamente del
nostro benessere. Ci tenevamo per mano senza baciarci. I giorni
passavano. Poi è venuta la
pioggia. All'ultima giornata di vento è seguita la notte del primo
temporale. Al buio, nel mio
letto, vedevo le fessure delle persiane accendersi di lampi, sentivo il
tuono rombare sulle pinete, poi lo scroscio secco, frustante della
pioggia sul tetto, sulla terrazza, sulla strada lastricata di ciottoli.
All'alba la pioggia
era cessata. Il paese, le pinete, erano avvolti nella nebbia sottile,
fumigante che saliva a ondate dal mare. Era un mondo nuovo, grigio e
verde, tenero, silenzioso.
Dopo colazione
abbiamo indossato i pullovers di lana, poi siamo usciti a vedere i
cambiamenti che il temporale aveva apportato.
Il giardino era pieno
di foglie strappate, di frutti maturati e caduti anzitempo. Sotto la
vite i grani d'uva ancora verdi, ma già pieni, spaccati dalla grandine.
Dove erano passati i
rivoli d'acqua la terra era liscia, pulita, compatta; dove l'acqua aveva
trovato ostacoli c'erano mucchietti di erbe, di pagliuzze, di foglie.
Le pietre della
strada luccicavano umide.
Sul paese la nebbia
si era quasi diradata intrattenendosi solo nei vicoli più profondi, ma
le pinete ne fumavano ancora.
Tenendoci per mano
abbiamo attraversato il sentiero giallo, ostruito qui e là da mucchi
rugginosi di aghi di pino, che l'acqua aveva trascinato in pendenza,
ridendo e scuotendo i capelli e le spalle se un albero ci scrollava
addosso le ultime gocce di pioggia.
Nel folto della
pineta il riso ci è svanito dalle labbra. Penetravamo in un mondo
ovattato. La nebbia veniva su a folate, scavalcava le cime dei pini, si
insinuava fra i tronchi umidi, stillanti di resina, si disperdeva a
brandelli tra i cespugli del sottobosco. Intorno a noi profumo d i terra
dissetata, di incenso e l'umido alito dei pini bagnati.
Hai cercato una
pietra grande, grigia, che affiorava dal suolo e ti sei seduto
prendendomi sulle ginocchia perché non mi bagnassi.
«Hai freddo, querida?».
«No, così vicino a
te».
Attraverso gli
indumenti di lana sentivo il calore del tuo corpo. Mi cullavi come una
bambina. Stavo tra le tue braccia finalmente abbandonata, il capo sulla
tua spalla, la tua mano che mi accarezzava la schiena. Il fiume
mormorante delle tue parole tra i miei capelli.
«Mi querida, mi amor.
Nina».
«Oh Gabriel, ti amo
tanto. Gabriel».
A sera, dopo cena, la
mamma era già salita, mi hai preso per mano dopo che ti avevo dato il
bacio della buona notte.
«Stai ancora un po'
qui con me» hai detto sdraiandoti vestito sul letto e facendomi posto.
Mi sono messa accanto
a te come tante volte era accaduto a Parigi.
Hai spento la luce e
nella stanza buia è rimasto il debole chiarore del lampione davanti alla
finestra, che filtrava da sotto le persiane.
Si distinguevano i
profili scuri dei mobili.
Hai cominciato a
baciarmi, dolcemente, accarezzandomi il volto e il capo, le spalle e le
braccia nude. La tua bocca era calda come mai l'avevo sentita.
«Gabriel, no.
Gabriel».
Avevi aperto la cerniera dei miei jeans, la tua mano si insinuava,
sfiorava i miei fianchi brucianti. Mi lamentavo debolmente senza più
reagire. Affascinata, protetta dal buio, grata per il buio.
Seguivo sul mio corpo il percorso della tua mano, sul ventre liscio e
giù fino al pube arcuato, fino a che il tuo dito ha incontrato il
rilievo di carne umida, tenera, che ha avuto uno spasimo al primo tocco.
«Non aver paura. Baciami».
Sentivo il tuo dito muoversi, premere, imprimere sulla carne un ritmo
dapprima lento, poi via via più svelto e la carne stessa inturgidirsi e
trasudare umore e il mio corpo, che ormai non, più mio, danzare a quel
ritmo. Le anche alzarsi e abbassarsi e abbandonarsi e premere contro la
tua mano e non ero io che le muovevo e il mio respiro che si faceva
sibilante nella gola e nel petto non era più mio, e poi finalmente
arresa, grata, gioiosa, atterrita, inarcata fino allo spasimo contro di
te e "Gabriel, no, Gabriel mi uccidi", e sprofondare nel buio e
risorgere e morire e rinascere nei palpiti lenti della carne, nei
palpiti frenetici della mia carne nel sudore del mio corpo che si
apriva, si chiudeva, a dare, a ricevere, a offrire, a chiedere,
imperioso e umile, grato.
E infine l'estremo guizzo, l'abbattersi contro di te, l'ansimare, roco
contro il tuo viso, l'ultimo pulsare e la quiete della carne sotto la
tua mano, ma non ancora nel ricordo, e il gemere «Gabriel, Gabriel,
Gabriel».
«È la prima volta, querida?».
«Sì. Ma tu?».
«Ora non importa». .
Mi ricomponevi e mi baciavi. Ero abbandonata contro di annullata in
un'altra dimensione.
Era questo, dunque. Così avveniva. Lo stupore del mio cor non era ancora
svanito.
Me ne sono andata, piano, al buio.
Camminavamo lungo la strada asfaltata che attraversava boschi. Andavamo
lentamente, pigri nel calore estivo che il giorno domenicale ci aveva
restituito.
Il nastro d'asfalto sembrava quasi blu, tra l'acceso rosso ruggine degli
aghi dei pini, respinti ai due lati della strada dal passaggio delle
automobili. Il verde tenero delle felci nel sottobosco creava una
barriera folta dalla quale emergevano i tronchi grigi e scagliosi.
«È così che succede nell'amore?» ti chiedevo.
«Oh, credo che sia qualcosa di più quando si fa in due. Certamente. Si
deve provare molto di più. Che effetto ti ha fatto?».
«Non so. Ricordo che ti ho detto che mi uccidevi. Era come sprofondare.
Sì. E non potevo farci niente, perché era una cosa che non dipendeva da
me. Avveniva ed io non potevo farci niente, ma era bellissimo sentirla
accadere».
«Davvero non avevi mai "provato" prima?».
«No. Solo nei sogni, ogni tanto. Svegliandomi avevo la sensazione che mi
fosse accaduto qualcosa di piacevole. Mi sentivo distesa, rilassata, poi
ricordavo confusamente, ma appena messi i piedi fuori dal letto non ci
pensavo più. Non ho mai pensato che potesse accadere da svegli, in
questo modo, né ho mai fantasticato che cosa fosse l'amore fra due
persone. Quello fisico, voglio dire. Ora capisco meglio certi passi di
libri che ho letto».
«Che cosa hai sentito dentro?».
«Non saprei dire con esattezza. Quando è giunto il culmine è stato come
se la parte più interna della mia carne fosse una ventosa. Sentivo
pulsare, palpitare ed era come se volesse succhiare, tirare avidamente
qualcosa. E c'era un punto caldo, bruciante».
«Il piacere in un uomo è diverso» hai detto tu meditabondo e poi,
improvviso: «Non ti sei mai masturbata?».
«No».
Ti guardavo stupita:
«Come può una donna? Credevo che solo gli uomini...». Hai riso:
«Può anche una donna, facendo da sola quello che ti ho fatto io».
«Ma con te è diverso. Prima ci sono stati i baci e ti ero così vicina e
io non ho fatto niente. Quando ero sola non ho mai pensato... Anche dopo
che ho conosciuto re ed ero lontana. A volte ti pensavo e volevo tanto
stringerti e baciarti e stare tra le tue braccia. Ma non sapevo che
potesse essere anche così. E tu?».
«Io ho cominciato presto, da ragazzo. Sai, in campagna è molto facile.
Si va tutti insieme a fare scorribande nei boschi, tra amici.
C'è sempre uno più grande ed esperto che poi insegna agli altri.
Però io non mi sono mai fatto toccare da nessuno. Avevo visto. Poi ho
provato da solo. L'ho fatto sempre da solo. Più tardi l'ho fatto,
talvolta, dopo essere uscito con una ragazza o dopo che ero stato a
ballare. Sai che la mia prima volta "vera" è stata a Parigi, con le
prostitute».
«Sì, sì».
Tacevo meditabonda,
un po' rigida nei passi.
Pensavo agli anni
della mia adolescenza imbrigliata, guidata, repressa dalla severa
educazione religiosa. Pensavo che non solo ero arrivata al controllo
completo del mio corpo, ma perfino a quello dell'inconscio.
A volte ero stata in
grado di bloccare il piacere al suo primo insorgere nei sogni e il
risveglio mi coglieva rotta, indolenzita, come dopo una lotta corpo a
corpo con qualcuno. Avvertivo inconsciamente, però, che grazie a quegli
anni solitari, in cui altri interessi non meno entusiasmanti avevano
assorbito la mia attenzione, avevo ora in serbo una ricchezza di
emozioni, di vitalità e di energie dirompenti cui il mio corpo poteva
attingere per i suoi bisogni d'amore con un entusiasmo sempre nuovo.
«Gabriel» ti ho
detto. «Ma l'amore, quello vero tra marito e moglie, non è soltanto
questo, vero? Deve essere qualcosa di più. Riusciresti a dirmi che mi
ami, senza usare parole, mentre si fa l'amore?».
«Che bambina sei! Ma
sì, quando saremo sposati sarà diverso. Ci ameremo. Ti darò tanto amore.
Però a volte l'uomo è come "loco" sai? È la sua parte animale. Desidera
solo un corpo e il piacere».
Scuotevo la testa.
«Io non lo farò se
non sentirò di amarti in quel momento». Tu mi guardavi e sorridevi come
un adulto può sorridere dei discorsi di un bambino.
Intanto avevamo
lasciato la strada asfaltata per un sentiero che saliva verso la parte
alta dei boschi e che ben presto finiva di essere un sentiero per
perdersi tra le rocce grigie che affioravano tra gli alberi.
Non eravamo mai
andati da quella parte, ma la pineta solita, invasa dai gitanti
domenicali, ci aveva infastidito. «Guarda Gabriel!».
Levando lo sguardo
alle cime degli alberi anche tu hai scorto la strana costruzione sospesa
tra i rami.
Era a forma di
triangolo e poggiava su tre pini.
Una scaletta di rami
recisi, inchiodati al tronco del primo albero portava fin lassù.
«Che cos'è?»
«Deve essere un
appostamento per la caccia. Ho sentito dire che in autunno passano da
qui gli stormi di anatre dirette a sud. Ci arrampichiamo? ».
«Può essere
pericoloso. Forse è abbandonato da tempo e il legno è marcio».
«Oh, proviamo».
Mi eccitava l'idea di
sparire lassù, tra i rami. Tu eri molto bravo ad arrampicarti, ma io non
ero mai riuscita a scalare un pino.
«Va bene, però
lasciami andare per primo».
Affondando fino al
petto nel sottobosco ci siamo avvicinati alla scaletta.
«Sembra solida» hai
detto saggiando i legni. «Sù, dai!».
Con precauzione hai
cominciato ad arrampicarti ed io ti ho seguito senza esitare. Calzavamo
tutti e due scarpe di tela con la suola di corda.
Tu avevi già
scavalcato il parapetto di tronchi e mi porgevi la mano per aiutarmi.
Non senza difficoltà sono riuscita ad entrare nella strana navicella.
«Che bello Gabriel!
Sembra un nido qui».
Eravamo letteralmente
spariti tra le cime dei pini. La costruzione si mimetizzava tra i rami.
Aghi pungenti e pigne spandevano intorno un grato profumo di resina. Il
pavimento era fatto di tavole di pino piallate rozzamente, intorno i
parapetti erano rami abbastanza grossi inchiodati in modo da lasciare
appena qualche fessura tra le cortecce irregolari e ci arrivavano quasi
al petto.
«Che bello, guarda!».
Reggendomi ai legni
avanzavo verso l'angolo estremo, che si protendeva come la prua di una
barca verso il vuoto.
La costruzione
vibrava leggermente sotto i nostri piedi, ma le tavole risultavano
solide ed elastiche.
Da lassù potevamo
dominare tutte le pinete circostanti e di fronte la vasta distesa del
mare aperto. Il sole era rosso e infuocato, ad un'ora dal tramonto.
«Sì, è molto bello»
hai detto dopo un'occhiata circolare. «Come si respira bene qui!».
Ti sei tolto le
scarpe e hai arrotolato lo spesso pullover di lana marrone, che portavi
legato attorno ai fianchi, facendone un cuscino. Con un sospiro di
beatitudine ti sei allungato sul pavimento.
L'appostamento poteva
contenere benissimo tre uomini accovacciati e due potevano starci
comodamente distesi. Doveva. essere eccitante spiare lo spuntare
dell'alba tra le connessure dei tronchi e sentire il vento fresco che
portava gli stormi. Peccato per le anatre, però.
«Clara vieni,
stenditi anche tu».
Ti avevo dimenticato
per un attimo.
Sono scivolata
accanto a te sulle tavole, appoggiando il capo sul braccio che avevi
disteso per accogliermi.
«Sembra proprio un
nido qui» hai detto avvicinando il viso al mio, «e noi siamo due
uccellini innamorati».
Ho riso sotto il tuo
bacio, ma tu già con forza mi spingevi la lingua tra le labbra fino a
che, arresa, ti ho stretto il capo e il volto tra le mani.
Quando ci siamo
staccati eravamo un po' ansanti. «Sai una cosa?» ho sussurrato.
«Sì?».
«Dopo che è successo.
Sai. Quella cosa. Dopo che è successa, ora ogni volta che mi baci così
sento come un fiume caldo dentro. Come un liquido caldo che scende. Lì».
«Lo so. Vuol dire che
il tuo corpo si prepara per l'amore». «Come?».
«Quel liquido scende
a bagnarti e così l'uomo può entrare più facilmente e scivolare dentro
di te senza farti male». «Oh, è così?».
«Sì. Sai, quando una
donna non è disposta le cose sono più difficili».
«A me è sufficiente
che mi baci in un certo modo. Sento subito quella goccia rovente che mi
solca dentro» ti ho detto orgogliosa.
«Quando saremo
sposati vuol dire che faremo l'amore molto bene».
«Credi che saprò
farlo bene? Mi insegnerai. Forse le prime volte dovrai avere molta
pazienza, perché non so niente».
«Impareremo insieme.
Sarà molto bello imparare insieme».
Eri di nuovo su di me
e mi baciavi piano piano cercando i punti morbidi della gola, alitandomi
sul seno, che con dita delicate mettevi a nudo.
Dopo tanti giorni il
piccolo capezzolo fioriva di rosso sotto le tue labbra.
«Vuoi ancora? E
anch'io con te?».
«Sì, sì, sì».
Nella piccola
navicella, al riparo tra i rami, il mio corpo si apriva alle tue
carezze. Giacevo ad occhi chiusi e sentivo le tue mani sul mio ventre
teso, i jeans che scivolavano lungo le cosce, i fianchi che premevano
sul tavolato duro.
All'improvviso il tuo
volto non era più sopra di me, ti stavi capovolgendo facendo oscillare
tutta la costruzione. Sdraiato a testa in giù mi abbracciavi i fianchi,
le tue labbra sfioravano il mio ombelico, e poi il tuo volto scendeva
sempre più giù, la bocca e il naso premendo, solcando il pube. Le mani
febbrili aprivano le cosce, là dove la pelle era più liscia e la carne
morbida, e il tuo volto vi affondava in un alitare rovente.
Perché anche questa
volta era sorpresa e aspettazione e stupore che potesse esserci qualcosa
di più che non avessi saputo dalla prima volta.
Quando la lingua
calda ha cercato, ha trovato, è penetrata saettando, e la carne
stillante, bruciante, ha risposto frenetica, ho gridato.
Un grido soffocato,
rantolante, che ha accompagnato lo sbattere dei miei fianchi sul legno
ruvido.
E così, sì, sì, così
fino allo spasimo, aprendomi, offrendomi, spingendo perché penetrassi di
più e ancora, là dove c'era l'ultima cosa che dovessi conoscere di me,
là dove, finalmente lo sapevo, ti avrei accolto il giorno che lo
avessimo voluto.
Tornavi ora col corpo
e il volto nella primitiva posizione e il tuo viso vicino al mio, umido
del mio umore, che sapeva del mio odore, dell'odore di donna, ha alitato
sopra di me senza sfiorarmi.
«Deja que me amojo un
poco».
«No, Gabriel».
«Non succederà
niente».
«No, no».
Serravo le gambe ora.
Ma non c'era bisogno
che ti umettassi al vapore del mio corpo. Erta, imperiosa, rossa, la tua
carne tremava, anelava al culmine del piacere.
Prima che ti
abbattessi per l'ultima volta sul mio ventre nudo lo sperma è uscito
spumeggiante, bagnandomi il fianco di una colata ampia.
Questa volta era
bastato il ritmo delle tue reni impazzite contro le mie. Non avevi
dovuto toccarti con le mani.
Prima di ricomporci
siamo rimasti a lungo vicini, immobili come morti, paghi di comunicare
solo attraverso il calore dei nostri corpi.
«Sai che sei molto
liscia. lì tra le cosce?» hai detto poi trasognato.
Finivamo di
riassettarci gli indumenti. Mi avevi asciugata col tuo fazzoletto.
Sono tornata alla
punta estrema dell'appostamento.
Il sole era al
tramonto. Cielo di fuoco rosso su un mare di acque incendiate e boschi
verdi e oro.
Ho girato il viso a
cercarti: giacevi, ricomposto e supino, sul tavolato. Poi ho sentito che
ti alzavi.
«A cosa pensa questa
romantica ragazza italiana?» hai detto nella mia lingua.
Sei venuto ad
appoggiarti un po' sui tronchi guardando giù senza toccarmi.
Con un ultimo guizzo
il sole è scomparso in mare lasciandomi barbagli negli occhi.
La tua vacanza era
finita ed eravamo tornati a casa mia per un giorno. Il treno per Parigi
partiva verso sera. La tua valigia era quasi pronta, semiaperta in
attesa delle ultime cose.
Avevi voluto fare il
giro delle stanze per ricordare bene tutti i particolari. Nella mia
camera avevi sfiorato il piccolo tavolo-scrivania sul quale scrivevo le
lettere per te, davanti alla finestra spalancata sul minuscolo
giardinetto con i due alberi d'arancio.
Avevi anche voluto
che conservassi io tutte le nostre lettere e le abbiamo sistemate in una
scatola che abbiamo chiuso a chiave in uno scomparto del mio
armadio-libreria. Hai ascoltato ancora qualche disco e "Strangers in the
Night". Dalla terrazza hai dato un'ultima occhiata al mare.
«Ora potrò
immaginarti nella tua casa, quando sarò a Parigi» hai detto.
Eri di nuovo un po'
nervoso come la prima sera che sei arrivato. A pranzo hai mangiato poco,
nonostante ti avessi preparato qualcosa di speciale e la crema al
cioccolato che ti piaceva tanto.
Nel pomeriggio sei
venuto nella camera grande, perché non riuscivi a fare il tuo sonnellino
come al solito. Io avevo dormito un po'.
Ti sei seduto in
fondo al mio letto dopo aver spalancato le persiane.
«Sai, Gabriel» ti ho
detto «non ti ho ancora fatto vedere le foto di famiglia: c'è tutta la
mia vita fino a quando ti ho conosciuto. Ti piacerebbe vederle?».
«Sí, con mucho
gusto».
Eri felice che ti
avessi trovato un passatempo.
Sono andata a
prendere il vecchio album in finta pelle e mi sono risistemata sul.
letto. Era un album un po' sciupato: cominciava con le foto dei miei
genitori, giovani sposi, e proseguiva con quelle dell'infanzia mia e di
mio fratello.
«Tuo padre era un
bell'uomo» hai detto.
«Si, vedi, alto e
snello e biondo con gli occhi azzurri, diverso da mia madre, così
piccola e bruna».
Hai rivisto le copie
delle mie foto di bambina che ti avevo spedito a Parigi e poi avanti,
avanti, quelle di scolaretta, e nel giardino della casa di campagna dove
ero nata e quelle del mare e in montagna, mentre gli anni passavano.
Già ero
un'adolescente, e poi con le amiche e le compagne di scuola e infine hai
visto le foto di alcuni ragazzi.
«Chi sono?» hai
chiesto rabbuiandoti in volto.
«Questo è il "profesor",
come lo chiami tu, l'istitutore di mio fratello al collegio».
«Il tuo amore dei
sedici anni?».