I Poeti

15-11-12

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I  poeti  hanno  scritto

Quando un panorama è spettacolare e suggestivo, è invitabile che stimoli la sensibilità creativa di poeti, scrittori, pittori ed artisti in genere. Qui di seguito trascriviamo alcune odi e canzoni, che si riferiscono a poeti che hanno dedicato componimenti alle bellezze di Campiglia e Tramonti.

 

Campiglia

 

Da un lato una siepe di case; dall’altro una chiesetta; poi, da sè, una torricella monca, che dicono di un mulino. E le tre cose si profilano nel cielo su dalla cresta alta alta del promontorio verde, il quale poi scende a scheggiarsi sopra Portovenere, lontano….  Attorno a Campiglia, insolenze di pineta. Ma il paesetto si difende la bellezza infinita delle sue viste. Da una piazzetta guarda l’estremo annegamento del sole nel Tirreno che s’è fatto ligure; e da sentieri e viottole cercherà, nella dimane, oltre il Golfo azzurro e le Apuane nivee, la resurrezione dell’Astro. Perchè Campiglia vede nel cielo tutto l’arco delle ore, e ne trae, per ogni sua cosa, le più diverse luci, ombre e fantasie…

 

O bimàre Campiglia, o bianca cresta

Di gàlea verde,

se ancor dall’alto del pinoso monte

il tuo si sperde

chiaro profilo al cielo azzurro azzurro

piumosamonte,

quando al di là del tuo biancor s’indora

al dì morente;

o Campiglia, tu sola fra le tante

Campiglia nate

nei monti e nelle valli e per le spiagge,

vedi prostrate,

tu sola, due tremende maestà:

Golfo e Tirreno….

Qua, in fondo, tra le braccia dei tuoi pini,

agita il seno

possente il curvo mar di Luni, greve

di quanta insidia

con le compresse folgori i negati

solchi presidia…

Tracce d’immensi pàttini, le scìe

vèrgano l’onda,

e traggon fili serici dall’urna,

all’altra sponda;

e se ripiglia l’àncora un aguzzo

dorso fumoso,

o legge è data al Golfo di lavoro

o di riposo,

fischiano le sirene acuti ringhi

d’enormi alàni,

e ne frizzan per l’aria evanescenti

èchi lontani…

A ponente, laggiù, Campiglia bella,

l’ultimo mare!

E’ uno splendore solo immenso immenso,

per un vibrare

di scintille anelanti all’Infinito!

Assorbe, incòrpora

Quello specchio del sol molte lunensi

vele di porpora,

e umiliato sfuma nella cerchia

estrema un tenue

pennacchio. Tra gli scogli ombrosi imbigiano

barchette ingenue

di pescatori, e procellarie, pazze

slargano l’ali

dappertutto. Si levano perenni

rombi abissali….

Tu, Campiglia, sovrasti. Reginetta

Immacolata

Tra le due furie stai. Tra i due potenti

Vivi bëata,

assorta nel gran vento del tuo cielo,

come rapita,

ora e per sempre, ai tempestosi gorghi

di nostra vita…

Tra le due furie stai, come solenne

cippo, se pure

li inviti a danza, i vignaròli in festa

con sonature

di flauti e fisarmòniche,nel rezzo

dei tuoi vigneti,

e spilli vino tuo, fresco tesoro

d’antri segreti!

Io sento qui, Campiglia, un filo strano

di fantasie

legare alle tue sorti semplicette

le sorti mie,

perchè se il tuo molino ha perso l’ali

e più non geme

di grave ruota, e solo, in alto, un èmbrice

nel vento freme,

perde l’ali cosi’ la vita mia,

e si discheggia,

quando l’urta il dolore: solo un rimpianto

ultimo aleggia.

Eppure, come tu cresci un’immortale

Schiatta di pini,

che il polso eterno in sè nella materia,

germi divini

rinverdisce così la vita mia,

quando m’aggiro

nella tua solitudine sdegnosa,

e in te m’ispiro…

Nella sdrucciola selva dei tuoi pini

un breve spazio

già mi fingo, per leggervi le amabili

odi d’Orazio

di gran cuore, e serrar le tempie in sogni

e avvolgimenti

di soavi speranze e di conforti

e d’ardimenti….

Per sempre alla tua pace, o borghicciòlo,

vorrei venire,

dove pur nel ricordo creperebbero

le invidie e l’ire;

e sùbito vorrei disimparare

per qual discesa

si torni alla città; vorrei nel cuore

portare illesa

fino alla morte la tua pace, e poi

finir quassù,

nelle dimenticanze amabilissime

che filtri tu!

 

Prof. Avv. Edoardo Vercelli

 

 

CAMPIGLIA    COMPOSIZIONE

 

 

Campiglia:  poche case affondate

nel verde intenso di pini e castagni;

la bianca chiesa, silente e piccina;

accanto, quasi fiorito giardino,

un breve pezzo di terra sacrato

ai morti che vi riposano in pace.

Sulle rocce che impervie scendono

Al mare, l’aspro , tenace lavoro

della sua gente, ha conteso ai dirupi

terrazze brevi, assolate, fiorite

di viti. Quando e’ vespro,  il disco

del sole, prima di spegnersi, muta

in rosso il suo dorato splendore

e, dei suoi raggi il riflesso accende,

sul calmo mare, una strada di luce.

                             MARIA ROSSI CIVARDI

 

 

CAMPIGLIA

 

 

Suo nido posa a cavalier del monte,

a picco sul mar :

di luce par genitrice e fonte…..

 

Dall’alte scalee, dal vetusto mulin

possente s’ode: come di tuon il naufragar

dell’onda, che di bianca spuma asperge

de pin la selva, de ciuffi l’erbe

cargo d’aroma forte e gentil.

 

Vision d’infinito fulgor

miri e rimiri

con sempre crescente stupor…

 

Quando Venere dai suoi baglior col mar confonde

….si chetan l’onde

dei castagneti lo stormir tace

ovunque intorno è Cristiana Pace….

 

PIETRO   ALESSI

 

 

“ A Campiglia”

 

Giungere in questo paese è come svegliarsi

da un sonno profondo, aprire gli occhi,

guardarsi attorno e domandarsi;

ma in quale mondo sono?

Non semafori e non strisce, non rumore che stordisce.

Pace a te! Mormora la fresca brezza,

unita allo svolazzar di rondini

e all’allegro cinguettio di passerotti

ad augurarti il buon mattino.

Certo che qui scompare ogni mal

che ti ha fatto soffrire.

E se la testa assai ti pesa,

o ti batte il cuore in fretta,

o la corda è troppo tesa,

vieni: qui c’è ogni ricetta.

Nella magica visione del bel borgo quieto

fra verdi monti e azzurro mare,

lo scordare ogni passione

dà allo spirito vigore.

Solitudine beata di  un paese così incantato

Che “rinascere” ti fa.

 

 

 

Considerazioni su “Tramonti di Campiglia”

 

Tramonti, località incantevole che si trova nel versante a mare del paese, dove soltanto a piedi o via mare puoi arrivare, dove mancan pure luce elettrica e acqua potabile.

Il terreno è sassoso e scosceso, i vigneti e gli uliveti a terrazzo sostenuti da muri di pietra, costruiti a secco da esperte mani dei nostri antenati.

Da qui puoi assistere a indimenticabili tramonti; vedi il sole calare a picco sul mare e scomparire all’orizzonte quasi a darti l’impressione di immergersi  nel mare arrossato dai suoi raggi.

Visitare questi luoghi è come trovarsi in un giardino incantato, dove tutto è allineato, tutto in ordine perfetto; dai muretti ai filari, dai pergoli agli uliveti, per non parlar delle cantine tutte in ordine e carine.

In queste meravigliose cantine, costruite in epoche lontane, oltre ai tini, caratelli e ogni altra attrezzatura puoi trovare ogni conforto sia per ristorarti che per riposarti al termine della dura giornata di lavoro che inizia all’alba e termina al tramonto.

Al tuo ritorno, riposti gli attrezzi , in attesa della cena, al chiaror di un traballante lumicino ti ritrovi attorno al tavolino, accolto dall’affetto sincero di chi sta sempre a te vicino a trascorrere la serata tutti insieme in allegria.

Poco è il tempo del riposo perché presto è il nuovo giorno, quando ancora un po’ assonnato ti avvii col tuo passo lento ma sicuro verso i campi fino giù in riva al mare a coltivare quei vigneti dove nascono le uve che ti danno quel buon vino che si chiama rinforsà.

Chi coltiva queste terre è gente tosta, assai caparbia, che si ammazza dalla fatica pur di raccogliere quel poco che gli basta per campare e tirare avanti un altro poco.

Che gran tristezza e fitta al cuore vedere com’è ridotto quel che era lo splendido Tramonti.

 

Sturlese Renato detto "Osilde",  della stirpe dei “Pipola”

 

 

                   ROBERTO NATALE

E’ deceduto, a La Spezia, da pochi giorni, all’età di 91 anni, Roberto Natale sceneggiatore, regista, documentarista e poeta spezzino.
Roberto Natale era nato alla Spezia il 21 aprile 1921, da padre originario di  Campiglia.

Pubblichiamo parte della raccolta del libro POESIE (1939-2001)

(pubblicato nel 2001) con riferimento a Campiglia.

 

PRESENTAZIONE

 

 

Roberto Natale è una figura discosta ma essenziale nel panorama culturale della città della Spezia come testimonia il suo recente-volume Storia di famiglia in scene. Per la comprensione delle vicende spezzine è di primaria importanza il suo documentario Prigionieri del Golfo nel 1947, una indimenticabile lezione di cinema militante. Peccato che siano andate perdute altre sue pellicole che documentano la situazione della Spezia subito dopo il secondo conflitto mondiale del Novecento. Lasciata La Spezia, dove è nato nel 1921, Natale si è trasferito a Roma svolgendo un proficuo e spesso oscuro lavoro di soggettista, sceneggiatore e regista cinematografico, televisivo e radiofonico nonché di commentatore di varie riviste culturali. Collaboratore del regista Mario Bava, costretto talvolta a celarsi dietro lo pseudonimo di Robert Christmas per le firme meno gratificanti in anni di film horror e kolossal dal vago aspetto hollywoodiano, Natale ha firmato nel 1972 un unico lungometraggio, Il mio corpo con rabbia, analisi di un'epoca di conflitti nascenti nella famiglia e nella società.

Se il Natale cinematografico risulta inglobato nella grande macchina produttiva di Cinecittà, il Natale lirico ha trovato una sua precisa collocazione nella poetica delle memoria. Il taglio risente ovviamente della visione cinematografica così che ogni opera può risultare un viaggio, una sceneggiatura, una scaletta. Il fondo della visione dell'autore è politico perché politico è il suo vivere, dalla Resistenza alla ricostruzione, dagli anni dell'impegno al nuovo secolo nel quale ha traguardato, oltre che la saggezza e a vena poetica, anche la propria filosofia di vita. Nel viaggio ininterrotto di una comunità la riflessione poetica di Roberto Natale è certamente una misura civile che non ha tempo. Per questo la consegniamo alla memoria di tutti.

 

Giorgio Pagano

Sindaco della Spezia

 

ROBERTO NATALE, IL PERCORSO

Roberto Natale incomincia a conservare le poesie che scrive solo quando la sua adolescenza è finita, e inizia a pubblicarle solo quando la giovinezza si trova alle sue spalle. Un'occhiata alle edizioni rivela poi che il corpo maggiore delle pubblicazioni s'accumula sul versante degli anni recenti. Questa reticenza “venire fuori” è un dato ineliminabile del carattere di Natale, ma è anche un dato critico in quanto indica una tensione tra lirismo e  impegno politico, che marca tutta la sua storia poetica.

Composizione e pubblicazione dei testi

 

Le prime poesie che Natale decide di conservare vengono scritte nel '39-'40, e sono quelle pubblicate nel 1960 in Per un diario, da Carpena. La guerra viene vissuta da Natale nella sua risoluzione partigiana. Poesie di quest'epoca appariranno molto più tardi in Nuove dimensioni, la rivista di Ferruccio Battolini, n.8, luglio 1962, col titolo «Sette liriche di guerra partigiana». Queste, con altre 23 scritte non oltre il '48, andranno a formare il volumetto Pieghe della mia terra (Lamento partigiano), pubblicato da Guanda nel 1964. Sempre in Nuove dimensioni, n.20-21, sett.1964, pubblicava «Labile memoria», poemetto di oltre 200 versi, scritto nello stesso anno, quando già l'ispirazione si allargava a temi politici e alla violenza in generale. Nel 1965 Natale partecipava a Bologna al «Premio nazionale la poesia sulla Resistenza», nel quale conseguiva il primo   premio.

 Le poesie presentate erano tutte inedite. Una parte risaliva all'ispirazione del '48 (questa sezione è intitolata «I silenzi»). Un secondo blocco, intitolato «Quelli che sono rimasti là», è del '64-'65, ed era stato scritto appositamente per il Premio Bologna. Della raccolta faceva inoltre parte «Recital per tre» poemetto di un centinaio di versi, composto nel 1964, anch'esso inedito. Nessuna delle poesie presentate al premio è stata mai pubblicata prima della presente raccolta. Pubblicava invece nel n. 1 della rivista Delta, settembre 1965, il poemetto «Jamesbondiana», e nel n. 3 della stessa rivista, marzo 1966, i due brevi poemetti «Intervista in versi» e «Lettera da Roma». Queste composizioni sono state scritte poco tempo prima della loro pubblicazione, e nel complesso i temi diventano sempre più civili: dalla guerra si passa lentamente alla socialità. Il numero 18, nov.-dic. 1968, della rivista Uomini e idee era dedicato a una antologia di poesia dell'avanguardia italiana, intitolata Il gesto poetico, a cura di Luciano Caruso e Corrado Piancastelli. Qui Natale pubblicava un nuovo poemetto, «Il manichino silenzioso». Nel 1969, Luciano Cherchi curava per le Edizioni del Naviglio l'antologia intitolata La situazione poetica 1958-1968, e in essa Natale era presente con il poemetto «Risposta dall'ultima spiaggia». Si tratta di lavori scritti poco prima della loro pubblicazione, e i frutti più maturi di questo periodo venivano raccolti in anacoviet, per la ellegi edizioni, 1972, opera di tre autori (Mario ìa     Roberto Natale, Nino Massari). Natale intitolava la sua sezione «killed 78 viets». Vi era compresa una edizione riveduta di «Jamesbondiana», apparso in Delta, 1; seguiva «Il manichino silenzioso», apparso in Il gesto poetico; completavano la raccolta una ventina di poesie, ma altre venti dello stesso periodo egli decideva di non pubblicarle, e appaiono per la prima volta qui, dove formano la sezione intitolata «Tra riflusso e ribellione». Dal 1974 Natale incominciò a pubblicare sulla rivista Lettera.

Singole poesie appaiono nel n. 1, febbraio 1974, e nel n. 2, giugno 1974. Nel n. 4, febb.1975 vi pubblicò una collezione di 16 brevi poesie intitolata «II ritorno di Ulisse»; nel n. 7, nov. -1975 vi pubblicava sette poesie come seconda parte del «Ritorno di Ulisse». Nel n. 21, ottobre 1980, Lettera dedicava 50 pagine a una folta antologia di poesie di Natale, includendovi quelle di Per un diario, di Pieghe della mia terra, i poemetti «Jamesbondiana», «Intervista in versi», «Lettera da Roma», «Risposta dall'ultima spiaggia» e una settantina di nuove poesie collettivamente chiamate «L'intrico». Nel numero III, 1, del marzo 1984, Lettera pubblicò l'abbozzo di un racconto in versi,

con alcune didascalie, intitolato «da ‘Storia di famiglia'». Vanno ascritte a questo periodo annotazioni in forma di poesia che, Natale venne componendo sul suo mestiere di uomo del cinema e che, pubblicate per la prima volta nella presente antologia, prendono il titolo di «Metafore cinematografiche».

Nel 1986 appariva il volume di poesie Storia di famiglia, stallo, utopia. Il titolo è composto dai titoli delle tre parti che lo compongono. La terza parte, «Utopia», raccoglie i poemetti «Lettera da Roma», «Jamesbondiana», «Il manichino», «Risposta dall'ultima spiaggia», dei quali si è vista sopra la storia editoriale. Ma questa terza parte, e la seconda, intitolata «Stallo», sono formate per lo più dalle poesie che Natale aveva pubblicato in Lettera, dal '74 all'80. E la prima parte, intitolata «Storia di famiglia», è lo sviluppo di quella raccolta che già aveva pubblicato in Lettera nel marzo del 1984.

Da questo momento la pubblicazione delle opere di Natale è assai meno complicata. Nel 1993 pubblica La foce del fiume, come volume della «Collana di classici spezzini». Nel 1997 pubblica Lo spariglio, presso la Arlem di Roma. Nel 1998 riedisce, arricchendone le didascalie e corredandola di un apparato iconografico, la Storia di famiglia, che ora diventa Storia di famiglia in scene, sempre per la Arlem. II presente volume raccoglie le poesie di Natale edite fino a questo momento. E in più pubblica molto materiale inedito, al quale è stato accennato sopra, e al quale bisogna aggiungere «Ritratto di un'amica nel tunnel», raccoltina composta nei primi anni '90». Si notano nella presente edizione alcune variazioni dei titoli: le poesie presentate al Premio Bologna per la Resistenza sono.indicate con il titolo «Poesie di tempi diversi». La sezione intitolata «Sceneggiatore a Rima» raccoglie poemetti, il cui titolo è spesso cambiato: quello di «Lettera da Roma» resta invariato; “Jamesbondiana” diventa «Per un film Jamesbondiano»; «Risposta dall'ultima spiaggia» diventa «Per un film di fantascienza; «II Manichino» diventa «Per un film sull'alienazione». La sezione intitolata «II Sessantotto» raccoglie la maggior parte di quanto pubblicato in anacoviet «L’Ulisside impelagato» pubblica la maggior parte di quanto apparso nello «Stallo».

La poesia dei testi

La poesia giovanile di Natale, raccolta in Per un diario, risente fortemente del clima poetico in Italia di quegli anni, dominato dalla lirica metafisica e surreale di Lorca, Alberti, Eluard, Apollinaire, Breton, Quasimodo,... Quello che Natale vi mette di suo è il paesaggio che dal Tino e la Palmaria va a Portovenere, al Muzzerone, alla Castellana, a Campiglia (dove si radica il ceppo paterno), Tramonti, Monasteroli... E bene non confondere questi luoghi con le Cinque Terre, o di considerarli come una loro appendice. Si tratta dell'estremo sperone orientale della Liguria, e sono terre più aspre, pericolose, esclusive, impervie: sono una costa e un mare «ulissidi», e Natale ne coglie l'essenza: là «è la vita / colta nel suo furore». Così, le scarse figure umane, e questo paesaggio, vengono descritti con voce gridata, iperbolica, e la retorica metafisica che le accompagna sconfina spesso in puro barocco: «Tu lo sai / ti respira in petto la luna, / cavalla araba», in cui il recupero ferigno della donna viene spinto ai limiti dell'esotico dal gioco intricato delle metonimie e delle metafore, con tutta l'immagine che si schiaccia su quella rara sequenza finale di otto «a» per nove sillabe.

Questo stesso spirito e questi influssi animano la seconda raccolta, Pieghe della mia terra. Ma qui Natale ha un tema, non è costretto a vagheggiare un paesaggio o qualche rara figura umana. Qui egli ha una epopea da raccontare, e nel titolo indica tra parentesi il contenuto della raccolta, (Lamento partigiano). Anche qui vi sono forti contenuti retorici, e anche compiacimenti stilistici. Quando in «Dal sottobosco risalgono» descrive i tedeschi che si inerpicano sul declivio di un colle, egli non continua con la descrizione dello scontro, ma conclude con: «Al primo colpo di fucile / migra la poiana / a più tranquille pasture», creando uno sbilancio tra l'immagine di morte (i tedeschi) e l'uccello disturbato nella quiete delle sue pasture. Sono figure giocate sul mutamento improvviso della tensione, il che indica una ricerca stilistica che sfugge all'ermetismo per quella sua educazione alla sceneggiatura, che qui comincia a farsi sentire: «e il vento, volpe lunare / scese sui campi / a scherzare col grano», ma la poesia si era aperta con «Ti colse il minuto / che fulmina la luna / navigante infelice» in cui, ancora, al partigiano colpito si contrappone quella metafisica volpe lunare, che scherza col grano, a creare nella narrazione lo scarto della sorpresa.

Natale finì il periodo del preziosimo simbolista (cui non erano esenti la lezione di Lautréamont, di Laforgue, di certi aspetti di Wilde) quando prese ad applicare sistematicamente, alla propria poesia, la metodologia appresa nel mestiere di sceneggiatore. La sceneggiatura costringe a una analisi dell'azione, alla sua scomposizione in scene sequenziali, al calcolo del dialogo, al rigore degli incastri. La palestra in cui fece gli esperimenti fondamentali è data dai «poemetti», e non è un caso che alcuni  siano stati ora uniti sotto il titolo di «Sceneggiatore a Roma». Inizia qui il secondo periodo poetico di Natale, della critica alla situazione ideologica, dell'analisi impietosa della propria situazione esistenziale. Nei primi tempi insiste ancora sul tema partigiano e rivoluzionario, ma allo slancio lirico subentra l'analisi sociale e politica, con un cambio di temi nella seconda metà degli anni Sessanta, quando si delinea il trionfo del capitalismo, che sta spianando il terreno all'avvento della new-economy. Natale registra la sconfitta della ideologia, l'incapacità di realizzare il sogno, l'accidia che intorpidisce l'azione. Che scrivere non serva a nulla - dice - lo aveva già scoperto Platone, ma in questa situazione anche il parlare ideologico si stempera nella chiacchiera inconcludente. E devastante, perché la sconfitta politica si prolunga in quella personale, del rapporto. Il diario di questa seconda sconfitta è la sezione intitolata «Stallo» nella raccolta Storia di famiglia, stallo, utopia, in cui si trovano alcune delle intuizioni psicologicamente più profonde della sua poesia. Qui una delle caratteristiche del suo modo di esprimersi raggiunge il vertice, quel modo che nella storia della letteratura è stato chiamato wit, conceit, agudeza, concetto,... di cui uno dei suoi esempi, non dei migliori, ma citabile perché tra i più brevi e scoperti, è: «Se cresci, hai detto, allora / io t'amo.// E non ti sei accorta (davvero?) che sono / un vecchio nano.» È questa ironia amara l'arma con cui si distrugge, e con sé il proprio nucleo sociale ed esistenziale

.

La presenza di «Storia di famiglia» permette anche di dire che se un ramo della produzione poetica di.Natale va verso l'intimismo, non per questo finisce l'altro, quello storico-ideologico, e la descrizione della storia della sua famiglia, che si gioca sulla contrapposizione tra le posizioni fasciste del padre e quelle socialiste della famiglia materna, nel periodo tra le due guerre, è il frutto più maturo di questo modo del suo secondo periodo poetico. La nascita, lo sviluppo, la vittoria e la sconfitta del fascismo sono le tappe obbligate di questo poemetto, suddiviso in brevi componimenti, ciascuno dei quali illustra un episodio. Non è tuttavia soltanto un breve poema narrativo, è anche l'atto finale della rappresentazione freudiana che nella sua opera Natale è venuto esponendo. La figura del padre è fondamentale nella vita dell'uomo, e qui Roberto Natale, per liberarsi della figura del padre fascista, e poterlo amare come genitore, deve ucciderlo, e lo uccide assumendo come metafora la sconfitta del fascismo: «ma parricida lo sono anch'io / mio padre a quest'ora dov'è / lo sgomento non è solo il mio/ ...», dove l'uccisione mètaforica si confonde con l'angoscia per la sorte del genitore. È così che Natale entra nel terzo periodo della sua produzione poetica.

 

I documenti che indicano questo passaggio sono quelli di «Metafore cinematografiche», con cui viene abbattuto il mito che sorreggeva l'impalcatura ideologica della sua vita, il mito del cinema. Era questa l'ultima riserva, quella. che lo aveva fatto partire per l'avventura romana, che per il bene o per il male lo aveva impegnato nella sua vita di lavoratore. Tutto ciò viene dissacrato nella esposizione degli inganni del mestiere, nella banalizzazione dell'invenzione filmica, e il tutto si riduce a un processo di dissoluzione di cui è simbolo il cerone che si scioglie sulla. faccia dell'artista reso guitto inconsapevole. Gli altri documenti di questo suo terzo periodo sono due poemetti, più lunghi di quelli che ha sin qui prodotto, oltre mille versi ciascuno, La foce del fiume, 1993; Lo spariglio, 1997. Ambedue sono dovuti al tramonto della ideologia comunista, nella quale ha creduto e nella quale continua a credere. Le soste nei porti delle certezze sono finite, bisogna riprendere il viaggio per scoprire che cosa non ha funzionato, e in che nuovi modi si debba configurare quella verità che ha fallito alla prova della storia. Ambedue le composizioni sono la narrazione di un viaggio. Il primo è un viaggio marinaro, che finisce sulla foce della Magra, e, com'era prevedibile, il viaggio non porta a nessuna verità preconfezionata. I luoghi rivisitati non danno risposte, i più disparati maestri vengono citati: da Rilke a Auden, a «il faut tenter de vivre!» di Valéry, a «I have a dream» di Luther King, a canti partigiani, a Brecht, Eliot, Ungaretti, Leopardi,... runica risposta viene dal vecchio barcaiolo del fiume, che non dice nulla, che solo si lamenta e sacramenta per il proprio lavoro, ma che continua a farlo. La risposta sta nella coerenza a quella vita dura, nel sapere «che il furore / è l'estrema forma di resa.»

 

Di un viaggio si tratta anche nello Spariglio, questa volta su un treno surreale dalle molte fermate in lande buie, tra compagni non bene individuati e figure femminili, il rapporto con le quali si tiene tra l'attrazione fisica e l'impegno ideologico. Neppure qui si possono avere risposte definitive, si dubita di tutto, persino del dubbio: è impossibile «dire se c'è fede o disimpegno / nel dubitare». Due ultime figure chiudono il poemetto, quella di Achab, il folle capitano che insegue la balena bianca e affonda con lei nell'oceano del mito (e forse qui la balena bianca è simbolo di una ideologia che pretendeva di risolvere tutto l'uomo) e il pipilìo d'un corvo appena nato, che sembra proporre l'istintualità più primitiva, la rinuncia all'ideologia, come unica certezza relativa alla propria condizione esistenziale. Pertanto la risposta è ancor meno definita che non nel poemetto precedente.

 

Non sarebbe tuttavia possibile parlare di un terzo periodo nel-, l'opera di Natale, se questo si riducesse alla presa di coscienza di una morte dell'ideologia. Il fatto è che si ha qui un mutamento linguistico che costituisce il vero segno del trauma ideologico. Già le immagini liriche del primo periodo avevano ceduto nel secondo a un linguaggio più cauto, ravvivato dal permanere di un concettismo autodissacrante. Il linguaggio ora si fa più duro; vocabolari specialistici (marinari, dialettali, cinematografici, gergali) vengono inseriti in una sintassi, che le figure dell'anastrofe e dell'ipèrbato, contorcono, («e il sùbito sull'albero d'arpie / posarsi c'è chi paventa...»: l'iperbato stacca «il sùbito posarsi»; l'anastrofe antepone la proposizione oggettiva a quella principale: «c'è chi paventa il subito posarsi», e anche l'ordine di «sull'albero d'arpie» è stato turbato: «e c'è chi paventa il sùbito posarsi d'arpie sull'albero»).

Dopo questi due viaggi, Natale tornava alla storia di famiglia, che aveva pubblicato in Lettera del marzo '84, e poi rivisitato in Storia di famiglia, stallo, utopia, dell'86, e che nel 1998 ipresentava in volumetto, con ampie didascalie storiche e complementato di una ricca documentazione iconografica. Qual è il significato di questo non sapere abbandonare Campiglia, paesino sul crinale, che a oriente guarda il Golfo della Spezia, a occidente ha una costa precipitosa sul Mar Ligure? Da quelle parti la terra è scarsa e rocciosa, e una casupola, per incroci ereditari è posseduta a pezzetti da varie famiglie, disposte a battersi pur di non rinunciarvi. Là imperversò il padre fascista, che egli ebbe il modo di vedere sconfitto. Ma anche Roberto è stato sconfitto in quello che era il suo credo politico più profondo. E neppure lui, che ha cercato una soluzione al problema della sua sconfitta (i due viaggi), è stato capace di trovarla. Gide ha riscritto il mito del figliol prodigo che, ritorto, aiuta il fratello più giovane a fuggire da casa, come aveva fatto lui  quando aveva quell'età. Ecco, la storia personale di Natale sembra quella di un figliol prodigo, incapace di decidere tra la  fuga e il ritorno.

 

Nel 1990 Natale aveva scritto una breve raccolta di poesie, intitolata «Ritratto di un'amica nel tunnel», che appare per la ma volta nella presente raccolta. È una raccolta che per certi aspetti (lo slancio, il desiderio, l'ammirazione, la bellezza, il trasporto...) avrebbe potuto scrivere cinquant'anni prima. Sono poesie d'amore per la giovane amica che è entrata in uno dei tanti tunnel che la vita scava per perderci. E sono poesie di un amore impossibile, perché al vecchio poeta è negato di amare, so non di cantare, la giovane prompente bellezza del corpo femminile. Sono poesie belle, che si legano per vocabolario e slancio a quelle della prima raccolta, ma ora con esitante prudenza, con castità sapienziale. Direi che anche se cronologicamente non sono le ultime, chiudono bene il lavoro poetico che Roberto Natale è venuto sin qui compiendo.

Spartaco, Gamberini

 

STORIA DI FAMIGLIA IN SCENE

 

Roberto Natale è uno dei tanti spezzini che si sono realizzati altrove conservando tuttavia gelosamente nel profondo dell'animo il ricordo di questa città avara di tutto verso i propri figli tranne che di nostalgia. E di struggente nostalgia è impregnato dalla prima all'ultima pagina questo libro, per molti versi originale, che Roberto (un valido uomo di cinema che si è fatto le ossa dietro la macchina da presa pur senza mai tradire la penna) ha voluto scrivere adottando uno stile, per così dire, didattico-sperimentale (gli addetti ai lavori lo definiscono plurilinguismo). Il quale consiste nello sviluppare la narrazione in un complesso e variopinto mosaico di versi, prose, immagini sbiadite, annotazioni storiche, malinconiche annotazioni suggerite all'Autore dalla rivisitazione del proprio album di famiglia e quindi suddivise in scene come si trattasse della sceneggiatura di un film ideale. Da questo riuscito collage è sortito alfine un libro, ma sarebbe meglio dire un messaggio poetico che l'Autore indirizza a un piccolo e disincantato amico con la segreta speranza che «almeno una parola sia messa a segno». Probabilmente, Roberto Natale si illude. Considero infatti un'illusione sperare che l'esperienza dei vecchi possa essere opportunamente sfruttata dai giovani. Com'è un'illusione considerare la storia maestra di vita: se così fosse vivremmo in una società perfetta, mentre in realtà ogni generazione incorre quasi sempre negli stessi errori in cui sono incorse quelle precedenti. Ma torniamo a Roberto Natale. Spezzino doc nato nel 1921 quella che Mussolini definì la «classe di ferro» e che per colpa sua registrò il più alto numero di Caduti nell'ultima guerra) egli ebbe la ventura di crescere all'ombra di un padre squadrista e di una madre di famiglia socialista (quella di Omero Del Moro, notissimo antifascista spezzino). La sua rievocazione poetica si snoda dunque fra le suggestioni e le malinconie di quel «Ventennio» che, nel bene e nel male, resiste ostinatamente all'archiviazione negli scaffali della memoria. I versi, le prose, le filastrocche, le immagini d'epoca sono precedute da suggestive descrizioni d'ambiente in schietto stile cinematografico, molte delle quali assai ben riuscite. Come, scelgo a caso, la Scena 13: «Casa materna. Interno giorno: Eccomi lì - in grigioverde, fez e pugnale al fianco - imbranato davanti a nonno Nicola che mi guarda perplesso...» Oppure la Scena 27: «Campiglia. Dopolavoro. Interno sera: Camicie nere, donne agghindate, bandierine tricolori, un grammofono a tromba...» E così, di scena in scena, l'Autore confida al suo giovane e improbabile ascoltatore i suoi sogni, le sue rimembranze e le sue speranze, cadenzate all'esterno dagli. avvenimenti storici che accompagnarono la sua adolescenza: le adunate, la guerra d'Abissinia, quella di Spagna e, infine, quella «vera» coi primi bombardamenti («I fasci luminosi dei riflettori si incrociano nel cielo buio»), la vita nei rifugi («Fragore vicino di bombe. Colpi d'antiaerea. Ronzare di motori...»), la caduta del regime, l'8 settembre, la Resistenza e la guerra civile («Dei tanti che sparavano / molti i disperati / che sparavano / à quelli che erano stati»). E infine la Liberazione coi festosi cortei in via Chiodo e piazza Verdi. Qui termina il messaggio «didatticosperimentale»,. ma soprattutto poetico che Roberto Natale indirizza speranzoso al suo piccolo ipotetico amico. Il quale, a pare mio, non potrà non invidiarlo almeno per un particolare. Roberto Natale, e tutti noi sopravvissuti del «Ventennio», avevamo un bersaglio preciso contro cui scaricare le nostre rabbie le nostre frustrazioni. Lui invece...

La Spezia, 1998                                              Arrigo Petacco

 

                                STORIA DI FAMIGLIA IN SCENE

 

                                              PREMESSA

Quando si affronta - anche con un'ottica «familiare» - un periodo così lontano e prossimo come il ventennio fascista, ci si trova di fronte alla difficoltà di quella complessa temperie in cui si sono sviluppati eventi personali connessi a quelli politici e militari così densi da dare sconvolgimenti epocali. Tanto più che questa tranche storica - con i suoi termini, le sue realtà specifiche - più che storicizzata è stata obliterata da una rapida entropia per rimozioni, enfatizzazioni e rapidi rivolgimenti politici e di costume. Eppure, proprio alla luce degli avvenimenti in corso - che in quel ventennio hanno ancora radici e memorie - m'è parsa utile una testimonianza, che riportasse però una più comprensibile agnizione per chi quel ventennio non ha conosciuto o per diversi motivi ha rimosso. Da qui l'idea di una rivisitazione plurilinguistica dell'argomento, usando - col nucleo originario versificato e in parte rivisto, pubblicato circa un decennio addietro dalla rivista Lettera con Storia di famiglia, stallo, utopia - usando, dicevo, la forza acclarante d'altri linguaggi complementari ad inquadrare storicamente la narrazione. E il tutto nel tentativo di creare corrispondenze dialettiche tra le varie componenti (cortocircuito analogico tra le vicende esistenziali private e le sovrastrutture politico-sociali allora autoritarie), rievocando, sommessamente, quel climax in cui il corpo centrale versificato possa trovare, spero, la sua «cultura primordiale» e - massima ambizione - la sua contemporaneità.

RN.

 

                                                     WEEK END COL PADRE

Sai, ad ogni week-end (ma allora si chiamava sabato fascista), andavo con mio padre, e spesso mio cugino Attilio, a Campiglia, dove viveva la famiglia paterna. E del paese, mio padre, già piccolo gerarca di regime, era un po' il boss (come diresti tu, oggi) e per questo chiamato «il podestà». E certo per me era un bel salto, passare da un ambiente familiare socialista - ma clandestino, poiché gli avversari politici del regime erano fuori legge e perseguitati - ad una influenza educativa paterna di segno opposto. Anche se devo dire che il nonno Baltrò non era certo d'accordo con le idee del figlio. Sai, di allora ricordo una canzone:

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 15-11-12