Campiglia
Da un lato una siepe di case; dall’altro una chiesetta; poi, da sè, una
torricella monca, che dicono di un mulino. E le tre cose si profilano nel cielo
su dalla cresta alta alta del promontorio verde, il quale poi scende a
scheggiarsi sopra Portovenere, lontano…. Attorno a Campiglia, insolenze di pineta. Ma il paesetto si
difende la bellezza infinita delle sue viste. Da una piazzetta guarda l’estremo
annegamento del sole nel Tirreno che s’è fatto ligure; e da sentieri e viottole
cercherà, nella dimane, oltre il Golfo azzurro e le Apuane nivee, la
resurrezione dell’Astro. Perchè Campiglia vede nel cielo tutto l’arco delle ore,
e ne trae, per ogni sua cosa, le più diverse luci, ombre e fantasie…
O bimàre Campiglia, o bianca cresta
Di gàlea verde,
se ancor dall’alto del pinoso monte
il tuo si sperde
chiaro profilo al cielo azzurro azzurro
piumosamonte,
quando al di là del tuo biancor s’indora
al dì morente;
o Campiglia, tu sola fra le tante
Campiglia nate
nei monti e nelle valli e per le spiagge,
vedi prostrate,
tu sola, due tremende maestà:
Golfo e Tirreno….
Qua, in fondo, tra le braccia dei tuoi pini,
agita il seno
possente il curvo mar di Luni, greve
di quanta insidia
con le compresse folgori i negati
solchi presidia…
Tracce d’immensi pàttini, le scìe
vèrgano l’onda,
e traggon fili serici dall’urna,
all’altra sponda;
e se ripiglia l’àncora un aguzzo
dorso fumoso,
o legge è data al Golfo di lavoro
o di riposo,
fischiano le sirene acuti ringhi
d’enormi alàni,
e ne frizzan per l’aria evanescenti
èchi lontani…
A ponente, laggiù, Campiglia bella,
l’ultimo mare!
E’ uno splendore solo immenso immenso,
per un vibrare
di scintille anelanti all’Infinito!
Assorbe, incòrpora
Quello specchio del sol molte lunensi
vele di porpora,
e umiliato sfuma nella cerchia
estrema un tenue
pennacchio. Tra gli scogli ombrosi imbigiano
barchette ingenue
di pescatori, e procellarie, pazze
slargano l’ali
dappertutto. Si levano perenni
rombi abissali….
Tu, Campiglia, sovrasti. Reginetta
Immacolata
Tra le due furie stai. Tra i due potenti
Vivi bëata,
assorta nel gran vento del tuo cielo,
come rapita,
ora e per sempre, ai tempestosi gorghi
di nostra vita…
Tra le due furie stai, come solenne
cippo, se pure
li inviti a danza, i vignaròli in festa
con sonature
di flauti e fisarmòniche,nel rezzo
dei tuoi vigneti,
e spilli vino tuo, fresco tesoro
d’antri segreti!
Io sento qui, Campiglia, un filo strano
di fantasie
legare alle tue sorti semplicette
le sorti mie,
perchè se il tuo molino ha perso l’ali
e più non geme
di grave ruota, e solo, in alto, un èmbrice
nel vento freme,
perde l’ali cosi’ la vita mia,
e si discheggia,
quando l’urta il dolore: solo un rimpianto
ultimo aleggia.
Eppure, come tu cresci un’immortale
Schiatta di pini,
che il polso eterno in sè nella materia,
germi divini
rinverdisce così la vita mia,
quando m’aggiro
nella tua solitudine sdegnosa,
e in te m’ispiro…
Nella sdrucciola selva dei tuoi pini
un breve spazio
già mi fingo, per leggervi le amabili
odi d’Orazio
di gran cuore, e serrar le tempie in sogni
e avvolgimenti
di soavi speranze e di conforti
e d’ardimenti….
Per sempre alla tua pace, o borghicciòlo,
vorrei venire,
dove pur nel ricordo creperebbero
le invidie e l’ire;
e sùbito vorrei disimparare
per qual discesa
si torni alla città; vorrei nel cuore
portare illesa
fino alla morte la tua pace, e poi
finir quassù,
nelle dimenticanze amabilissime
che filtri tu!
Prof. Avv. Edoardo Vercelli
CAMPIGLIA COMPOSIZIONE
Campiglia: poche case
affondate
nel verde intenso di pini e
castagni;
la bianca chiesa, silente e
piccina;
accanto, quasi fiorito
giardino,
un breve pezzo di terra
sacrato
ai morti che vi riposano in
pace.
Sulle rocce che impervie
scendono
Al mare, l’aspro , tenace
lavoro
della sua gente, ha conteso
ai dirupi
terrazze brevi, assolate,
fiorite
di viti. Quando e’ vespro,
il disco
del sole, prima di
spegnersi, muta
in rosso il suo dorato
splendore
e, dei suoi raggi il
riflesso accende,
sul calmo mare, una strada
di luce.
MARIA ROSSI CIVARDI
CAMPIGLIA
Suo nido posa a cavalier del monte,
a picco sul mar :
di luce par genitrice e fonte…..
Dall’alte scalee, dal vetusto mulin
possente s’ode: come di tuon il naufragar
dell’onda, che di bianca spuma asperge
de pin la selva, de ciuffi l’erbe
cargo d’aroma forte e gentil.
Vision d’infinito fulgor
miri e rimiri
con sempre crescente stupor…
Quando Venere dai suoi baglior col mar confonde
….si chetan l’onde
dei castagneti lo stormir tace
ovunque intorno è Cristiana Pace….
PIETRO ALESSI
“ A Campiglia”
Giungere in questo paese è come svegliarsi
da un sonno profondo, aprire gli occhi,
guardarsi attorno e domandarsi;
ma in quale mondo sono?
Non semafori e non strisce, non rumore che
stordisce.
Pace a te! Mormora la fresca brezza,
unita allo svolazzar di rondini
e all’allegro cinguettio di passerotti
ad augurarti il buon mattino.
Certo che qui scompare ogni mal
che ti ha fatto soffrire.
E se la testa assai ti pesa,
o ti batte il cuore in fretta,
o la corda è troppo tesa,
vieni: qui c’è ogni ricetta.
Nella magica visione del bel borgo quieto
fra verdi monti e azzurro mare,
lo scordare ogni passione
dà allo spirito vigore.
Solitudine beata di un paese così incantato
Che “rinascere” ti fa.
Considerazioni su “Tramonti di
Campiglia”
Tramonti, località incantevole che si trova nel
versante a mare del paese, dove soltanto a piedi o via mare puoi
arrivare, dove mancan pure luce elettrica e acqua potabile.
Il terreno è sassoso e scosceso, i vigneti e gli
uliveti a terrazzo sostenuti da muri di pietra, costruiti a secco da
esperte mani dei nostri antenati.
Da qui puoi assistere a indimenticabili tramonti;
vedi il sole calare a picco sul mare e scomparire all’orizzonte quasi a
darti l’impressione di immergersi nel mare arrossato dai suoi raggi.
Visitare questi luoghi è come trovarsi in un
giardino incantato, dove tutto è allineato, tutto in ordine perfetto;
dai muretti ai filari, dai pergoli agli uliveti, per non parlar delle
cantine tutte in ordine e carine.
In queste meravigliose cantine, costruite in epoche
lontane, oltre ai tini, caratelli e ogni altra attrezzatura puoi trovare
ogni conforto sia per ristorarti che per riposarti al termine della dura
giornata di lavoro che inizia all’alba e termina al tramonto.
Al tuo ritorno, riposti gli attrezzi , in attesa
della cena, al chiaror di un traballante lumicino ti ritrovi attorno al
tavolino, accolto dall’affetto sincero di chi sta sempre a te vicino a
trascorrere la serata tutti insieme in allegria.
Poco è il tempo del riposo perché presto è il nuovo
giorno, quando ancora un po’ assonnato ti avvii col tuo passo lento ma
sicuro verso i campi fino giù in riva al mare a coltivare quei vigneti
dove nascono le uve che ti danno quel buon vino che si chiama rinforsà.
Chi coltiva queste terre è gente tosta, assai
caparbia, che si ammazza dalla fatica pur di raccogliere quel poco che
gli basta per campare e tirare avanti un altro poco.
Che gran tristezza e fitta al cuore vedere com’è
ridotto quel che era lo splendido Tramonti.
Sturlese Renato
detto "Osilde",
della stirpe dei “Pipola”
ROBERTO NATALE
E’ deceduto, a La Spezia, da pochi giorni, all’età di 91 anni, Roberto
Natale sceneggiatore, regista, documentarista e poeta spezzino.
Roberto Natale era nato alla Spezia il 21 aprile 1921, da padre
originario di Campiglia.
Pubblichiamo parte della raccolta del libro POESIE (1939-2001)
(pubblicato nel 2001) con riferimento a Campiglia.
PRESENTAZIONE
Roberto Natale è una
figura discosta ma essenziale nel panorama culturale della città della
Spezia come testimonia il suo recente-volume Storia di famiglia in
scene. Per la comprensione delle vicende spezzine è di primaria
importanza il suo documentario Prigionieri del Golfo nel 1947, una
indimenticabile lezione di cinema militante. Peccato che siano andate
perdute altre sue pellicole che documentano la situazione della Spezia
subito dopo il secondo conflitto mondiale del Novecento. Lasciata La
Spezia, dove è nato nel 1921, Natale si è trasferito a Roma svolgendo un
proficuo e spesso oscuro lavoro di soggettista, sceneggiatore e regista
cinematografico, televisivo e radiofonico nonché di commentatore di
varie riviste culturali. Collaboratore del regista Mario Bava, costretto
talvolta a celarsi dietro lo pseudonimo di Robert Christmas per le firme
meno gratificanti in anni di film horror e kolossal dal vago aspetto
hollywoodiano, Natale ha firmato nel 1972 un unico lungometraggio, Il
mio corpo con rabbia, analisi di un'epoca di conflitti nascenti nella
famiglia e nella società.
Se il Natale
cinematografico risulta inglobato nella grande macchina produttiva di
Cinecittà, il Natale lirico ha trovato una sua precisa collocazione
nella poetica delle memoria. Il taglio risente ovviamente della visione
cinematografica così che ogni opera può risultare un viaggio, una
sceneggiatura, una scaletta. Il fondo della visione dell'autore è
politico perché politico è il suo vivere, dalla Resistenza alla
ricostruzione, dagli anni dell'impegno al nuovo secolo nel quale ha
traguardato, oltre che la saggezza e a vena poetica, anche la propria
filosofia di vita. Nel viaggio ininterrotto di una comunità la
riflessione poetica di Roberto Natale è certamente una misura civile che
non ha tempo. Per questo la consegniamo alla memoria di tutti.
Giorgio Pagano
Sindaco della Spezia
ROBERTO NATALE, IL
PERCORSO
Roberto Natale
incomincia a conservare le poesie che scrive solo quando la sua
adolescenza è finita, e inizia a pubblicarle solo quando la giovinezza
si trova alle sue spalle. Un'occhiata alle edizioni rivela poi che il
corpo maggiore delle pubblicazioni s'accumula sul versante degli anni
recenti. Questa reticenza “venire fuori” è un dato ineliminabile del
carattere di Natale, ma è anche un dato critico in quanto indica una
tensione tra lirismo e impegno politico, che marca tutta la sua storia
poetica.
Composizione e
pubblicazione dei testi
Le prime poesie che
Natale decide di conservare vengono scritte nel '39-'40, e sono quelle
pubblicate nel 1960 in Per un diario, da Carpena. La guerra viene
vissuta da Natale nella sua risoluzione partigiana. Poesie di quest'epoca
appariranno molto più tardi in Nuove dimensioni, la rivista di Ferruccio
Battolini, n.8, luglio 1962, col titolo «Sette liriche di guerra
partigiana». Queste, con altre 23 scritte non oltre il '48, andranno a
formare il volumetto Pieghe della mia terra (Lamento partigiano),
pubblicato da Guanda nel 1964. Sempre in Nuove dimensioni, n.20-21, sett.1964,
pubblicava «Labile memoria», poemetto di oltre 200 versi, scritto nello
stesso anno, quando già l'ispirazione si allargava a temi politici e
alla violenza in generale. Nel 1965 Natale partecipava a Bologna al
«Premio nazionale la poesia sulla Resistenza», nel quale conseguiva il
primo premio.
Le poesie presentate
erano tutte inedite. Una parte risaliva all'ispirazione del '48 (questa
sezione è intitolata «I silenzi»). Un secondo blocco, intitolato «Quelli
che sono rimasti là», è del '64-'65, ed era stato scritto appositamente
per il Premio Bologna. Della raccolta faceva inoltre parte «Recital per
tre» poemetto di un centinaio di versi, composto nel 1964, anch'esso
inedito. Nessuna delle poesie presentate al premio è stata mai
pubblicata prima della presente raccolta. Pubblicava invece nel n. 1
della rivista Delta, settembre 1965, il poemetto «Jamesbondiana», e nel
n. 3 della stessa rivista, marzo 1966, i due brevi poemetti «Intervista
in versi» e «Lettera da Roma». Queste composizioni sono state scritte
poco tempo prima della loro pubblicazione, e nel complesso i temi
diventano sempre più civili: dalla guerra si passa lentamente alla
socialità. Il numero 18, nov.-dic. 1968, della rivista Uomini e idee era
dedicato a una antologia di poesia dell'avanguardia italiana, intitolata
Il gesto poetico, a cura di Luciano Caruso e Corrado Piancastelli. Qui
Natale pubblicava un nuovo poemetto, «Il manichino silenzioso». Nel
1969, Luciano Cherchi curava per le Edizioni del Naviglio l'antologia
intitolata La situazione poetica 1958-1968, e in essa Natale era
presente con il poemetto «Risposta dall'ultima spiaggia». Si tratta di
lavori scritti poco prima della loro pubblicazione, e i frutti più
maturi di questo periodo venivano raccolti in anacoviet, per la ellegi
edizioni, 1972, opera di tre autori (Mario ìa Roberto Natale, Nino
Massari). Natale intitolava la sua sezione «killed 78 viets». Vi era
compresa una edizione riveduta di «Jamesbondiana», apparso in Delta, 1;
seguiva «Il manichino silenzioso», apparso in Il gesto poetico;
completavano la raccolta una ventina di poesie, ma altre venti dello
stesso periodo egli decideva di non pubblicarle, e appaiono per la prima
volta qui, dove formano la sezione intitolata «Tra riflusso e
ribellione». Dal 1974 Natale incominciò a pubblicare sulla rivista
Lettera.
Singole poesie appaiono
nel n. 1, febbraio 1974, e nel n. 2, giugno 1974. Nel n. 4, febb.1975 vi
pubblicò una collezione di 16 brevi poesie intitolata «II ritorno di
Ulisse»; nel n. 7, nov. -1975 vi pubblicava sette poesie come seconda
parte del «Ritorno di Ulisse». Nel n. 21, ottobre 1980, Lettera dedicava
50 pagine a una folta antologia di poesie di Natale, includendovi quelle
di Per un diario, di Pieghe della mia terra, i poemetti «Jamesbondiana»,
«Intervista in versi», «Lettera da Roma», «Risposta dall'ultima
spiaggia» e una settantina di nuove poesie collettivamente chiamate
«L'intrico». Nel numero III, 1, del marzo 1984, Lettera pubblicò
l'abbozzo di un racconto in versi,
con alcune didascalie,
intitolato «da ‘Storia di famiglia'». Vanno ascritte a questo periodo
annotazioni in forma di poesia che, Natale venne componendo sul suo
mestiere di uomo del cinema e che, pubblicate per la prima volta nella
presente antologia, prendono il titolo di «Metafore cinematografiche».
Nel 1986 appariva il
volume di poesie Storia di famiglia, stallo, utopia. Il titolo è
composto dai titoli delle tre parti che lo compongono. La terza parte,
«Utopia», raccoglie i poemetti «Lettera da Roma», «Jamesbondiana», «Il
manichino», «Risposta dall'ultima spiaggia», dei quali si è vista sopra
la storia editoriale. Ma questa terza parte, e la seconda, intitolata
«Stallo», sono formate per lo più dalle poesie che Natale aveva
pubblicato in Lettera, dal '74 all'80. E la prima parte, intitolata
«Storia di famiglia», è lo sviluppo di quella raccolta che già aveva
pubblicato in Lettera nel marzo del 1984.
Da questo momento la
pubblicazione delle opere di Natale è assai meno complicata. Nel 1993
pubblica La foce del fiume, come volume della «Collana di classici
spezzini». Nel 1997 pubblica Lo spariglio, presso la Arlem di Roma. Nel
1998 riedisce, arricchendone le didascalie e corredandola di un apparato
iconografico, la Storia di famiglia, che ora diventa Storia di famiglia
in scene, sempre per la Arlem. II presente volume raccoglie le poesie di
Natale edite fino a questo momento. E in più pubblica molto materiale
inedito, al quale è stato accennato sopra, e al quale bisogna aggiungere
«Ritratto di un'amica nel tunnel», raccoltina composta nei primi anni
'90». Si notano nella presente edizione alcune variazioni dei titoli: le
poesie presentate al Premio Bologna per la Resistenza sono.indicate con
il titolo «Poesie di tempi diversi». La sezione intitolata
«Sceneggiatore a Rima» raccoglie poemetti, il cui titolo è spesso
cambiato: quello di «Lettera da Roma» resta invariato; “Jamesbondiana”
diventa «Per un film Jamesbondiano»; «Risposta dall'ultima spiaggia»
diventa «Per un film di fantascienza; «II Manichino» diventa «Per un
film sull'alienazione». La sezione intitolata «II Sessantotto» raccoglie
la maggior parte di quanto pubblicato in anacoviet «L’Ulisside
impelagato» pubblica la maggior parte di quanto apparso nello «Stallo».
La poesia dei testi
La poesia giovanile di
Natale, raccolta in Per un diario, risente fortemente del clima poetico
in Italia di quegli anni, dominato dalla lirica metafisica e surreale di
Lorca, Alberti, Eluard, Apollinaire, Breton, Quasimodo,... Quello che
Natale vi mette di suo è il paesaggio che dal Tino e la Palmaria va a
Portovenere, al Muzzerone, alla Castellana, a Campiglia (dove si radica
il ceppo paterno), Tramonti, Monasteroli... E bene non confondere questi
luoghi con le Cinque Terre, o di considerarli come una loro appendice.
Si tratta dell'estremo sperone orientale della Liguria, e sono terre più
aspre, pericolose, esclusive, impervie: sono una costa e un mare «ulissidi»,
e Natale ne coglie l'essenza: là «è la vita / colta nel suo furore».
Così, le scarse figure umane, e questo paesaggio, vengono descritti con
voce gridata, iperbolica, e la retorica metafisica che le accompagna
sconfina spesso in puro barocco: «Tu lo sai / ti respira in petto la
luna, / cavalla araba», in cui il recupero ferigno della donna viene
spinto ai limiti dell'esotico dal gioco intricato delle metonimie e
delle metafore, con tutta l'immagine che si schiaccia su quella rara
sequenza finale di otto «a» per nove sillabe.
Questo stesso spirito e
questi influssi animano la seconda raccolta, Pieghe della mia terra. Ma
qui Natale ha un tema, non è costretto a vagheggiare un paesaggio o
qualche rara figura umana. Qui egli ha una epopea da raccontare, e nel
titolo indica tra parentesi il contenuto della raccolta, (Lamento
partigiano). Anche qui vi sono forti contenuti retorici, e anche
compiacimenti stilistici. Quando in «Dal sottobosco risalgono» descrive
i tedeschi che si inerpicano sul declivio di un colle, egli non continua
con la descrizione dello scontro, ma conclude con: «Al primo colpo di
fucile / migra la poiana / a più tranquille pasture», creando uno
sbilancio tra l'immagine di morte (i tedeschi) e l'uccello disturbato
nella quiete delle sue pasture. Sono figure giocate sul mutamento
improvviso della tensione, il che indica una ricerca stilistica che
sfugge all'ermetismo per quella sua educazione alla sceneggiatura, che
qui comincia a farsi sentire: «e il vento, volpe lunare / scese sui
campi / a scherzare col grano», ma la poesia si era aperta con «Ti colse
il minuto / che fulmina la luna / navigante infelice» in cui, ancora, al
partigiano colpito si contrappone quella metafisica volpe lunare, che
scherza col grano, a creare nella narrazione lo scarto della sorpresa.
Natale finì il periodo
del preziosimo simbolista (cui non erano esenti la lezione di
Lautréamont, di Laforgue, di certi aspetti di Wilde) quando prese ad
applicare sistematicamente, alla propria poesia, la metodologia appresa
nel mestiere di sceneggiatore. La sceneggiatura costringe a una analisi
dell'azione, alla sua scomposizione in scene sequenziali, al calcolo del
dialogo, al rigore degli incastri. La palestra in cui fece gli
esperimenti fondamentali è data dai «poemetti», e non è un caso che
alcuni siano stati ora uniti sotto il titolo di «Sceneggiatore a Roma».
Inizia qui il secondo periodo poetico di Natale, della critica alla
situazione ideologica, dell'analisi impietosa della propria situazione
esistenziale. Nei primi tempi insiste ancora sul tema partigiano e
rivoluzionario, ma allo slancio lirico subentra l'analisi sociale e
politica, con un cambio di temi nella seconda metà degli anni Sessanta,
quando si delinea il trionfo del capitalismo, che sta spianando il
terreno all'avvento della new-economy. Natale registra la sconfitta
della ideologia, l'incapacità di realizzare il sogno, l'accidia che
intorpidisce l'azione. Che scrivere non serva a nulla - dice - lo aveva
già scoperto Platone, ma in questa situazione anche il parlare
ideologico si stempera nella chiacchiera inconcludente. E devastante,
perché la sconfitta politica si prolunga in quella personale, del
rapporto. Il diario di questa seconda sconfitta è la sezione intitolata
«Stallo» nella raccolta Storia di famiglia, stallo, utopia, in cui si
trovano alcune delle intuizioni psicologicamente più profonde della sua
poesia. Qui una delle caratteristiche del suo modo di esprimersi
raggiunge il vertice, quel modo che nella storia della letteratura è
stato chiamato wit, conceit, agudeza, concetto,... di cui uno dei suoi
esempi, non dei migliori, ma citabile perché tra i più brevi e scoperti,
è: «Se cresci, hai detto, allora / io t'amo.// E non ti sei accorta
(davvero?) che sono / un vecchio nano.» È questa ironia amara l'arma con
cui si distrugge, e con sé il proprio nucleo sociale ed esistenziale
.
La presenza di «Storia
di famiglia» permette anche di dire che se un ramo della produzione
poetica di.Natale va verso l'intimismo, non per questo finisce l'altro,
quello storico-ideologico, e la descrizione della storia della sua
famiglia, che si gioca sulla contrapposizione tra le posizioni fasciste
del padre e quelle socialiste della famiglia materna, nel periodo tra le
due guerre, è il frutto più maturo di questo modo del suo secondo
periodo poetico. La nascita, lo sviluppo, la vittoria e la sconfitta del
fascismo sono le tappe obbligate di questo poemetto, suddiviso in brevi
componimenti, ciascuno dei quali illustra un episodio. Non è tuttavia
soltanto un breve poema narrativo, è anche l'atto finale della
rappresentazione freudiana che nella sua opera Natale è venuto
esponendo. La figura del padre è fondamentale nella vita dell'uomo, e
qui Roberto Natale, per liberarsi della figura del padre fascista, e
poterlo amare come genitore, deve ucciderlo, e lo uccide assumendo come
metafora la sconfitta del fascismo: «ma parricida lo sono anch'io / mio
padre a quest'ora dov'è / lo sgomento non è solo il mio/ ...», dove
l'uccisione mètaforica si confonde con l'angoscia per la sorte del
genitore. È così che Natale entra nel terzo periodo della sua produzione
poetica.
I documenti che indicano
questo passaggio sono quelli di «Metafore cinematografiche», con cui
viene abbattuto il mito che sorreggeva l'impalcatura ideologica della
sua vita, il mito del cinema. Era questa l'ultima riserva, quella. che
lo aveva fatto partire per l'avventura romana, che per il bene o per il
male lo aveva impegnato nella sua vita di lavoratore. Tutto ciò viene
dissacrato nella esposizione degli inganni del mestiere, nella
banalizzazione dell'invenzione filmica, e il tutto si riduce a un
processo di dissoluzione di cui è simbolo il cerone che si scioglie
sulla. faccia dell'artista reso guitto inconsapevole. Gli altri
documenti di questo suo terzo periodo sono due poemetti, più lunghi di
quelli che ha sin qui prodotto, oltre mille versi ciascuno, La foce del
fiume, 1993; Lo spariglio, 1997. Ambedue sono dovuti al tramonto della
ideologia comunista, nella quale ha creduto e nella quale continua a
credere. Le soste nei porti delle certezze sono finite, bisogna
riprendere il viaggio per scoprire che cosa non ha funzionato, e in che
nuovi modi si debba configurare quella verità che ha fallito alla prova
della storia. Ambedue le composizioni sono la narrazione di un viaggio.
Il primo è un viaggio marinaro, che finisce sulla foce della Magra, e,
com'era prevedibile, il viaggio non porta a nessuna verità
preconfezionata. I luoghi rivisitati non danno risposte, i più disparati
maestri vengono citati: da Rilke a Auden, a «il faut tenter de vivre!»
di Valéry, a «I have a dream» di Luther King, a canti partigiani, a
Brecht, Eliot, Ungaretti, Leopardi,... runica risposta viene dal vecchio
barcaiolo del fiume, che non dice nulla, che solo si lamenta e
sacramenta per il proprio lavoro, ma che continua a farlo. La risposta
sta nella coerenza a quella vita dura, nel sapere «che il furore / è
l'estrema forma di resa.»
Di un viaggio si tratta
anche nello Spariglio, questa volta su un treno surreale dalle molte
fermate in lande buie, tra compagni non bene individuati e figure
femminili, il rapporto con le quali si tiene tra l'attrazione fisica e
l'impegno ideologico. Neppure qui si possono avere risposte definitive,
si dubita di tutto, persino del dubbio: è impossibile «dire se c'è fede
o disimpegno / nel dubitare». Due ultime figure chiudono il poemetto,
quella di Achab, il folle capitano che insegue la balena bianca e
affonda con lei nell'oceano del mito (e forse qui la balena bianca è
simbolo di una ideologia che pretendeva di risolvere tutto l'uomo) e il
pipilìo d'un corvo appena nato, che sembra proporre l'istintualità più
primitiva, la rinuncia all'ideologia, come unica certezza relativa alla
propria condizione esistenziale. Pertanto la risposta è ancor meno
definita che non nel poemetto precedente.
Non sarebbe tuttavia
possibile parlare di un terzo periodo nel-, l'opera di Natale, se questo
si riducesse alla presa di coscienza di una morte dell'ideologia. Il
fatto è che si ha qui un mutamento linguistico che costituisce il vero
segno del trauma ideologico. Già le immagini liriche del primo periodo
avevano ceduto nel secondo a un linguaggio più cauto, ravvivato dal
permanere di un concettismo autodissacrante. Il linguaggio ora si fa più
duro; vocabolari specialistici (marinari, dialettali, cinematografici,
gergali) vengono inseriti in una sintassi, che le figure dell'anastrofe
e dell'ipèrbato, contorcono, («e il sùbito sull'albero d'arpie / posarsi
c'è chi paventa...»: l'iperbato stacca «il sùbito posarsi»; l'anastrofe
antepone la proposizione oggettiva a quella principale: «c'è chi paventa
il subito posarsi», e anche l'ordine di «sull'albero d'arpie» è stato
turbato: «e c'è chi paventa il sùbito posarsi d'arpie sull'albero»).
Dopo questi due viaggi,
Natale tornava alla storia di famiglia, che aveva pubblicato in Lettera
del marzo '84, e poi rivisitato in Storia di famiglia, stallo, utopia,
dell'86, e che nel 1998 ipresentava in volumetto, con ampie didascalie
storiche e complementato di una ricca documentazione iconografica. Qual
è il significato di questo non sapere abbandonare Campiglia, paesino sul
crinale, che a oriente guarda il Golfo della Spezia, a occidente ha una
costa precipitosa sul Mar Ligure? Da quelle parti la terra è scarsa e
rocciosa, e una casupola, per incroci ereditari è posseduta a pezzetti
da varie famiglie, disposte a battersi pur di non rinunciarvi. Là
imperversò il padre fascista, che egli ebbe il modo di vedere sconfitto.
Ma anche Roberto è stato sconfitto in quello che era il suo credo
politico più profondo. E neppure lui, che ha cercato una soluzione al
problema della sua sconfitta (i due viaggi), è stato capace di trovarla.
Gide ha riscritto il mito del figliol prodigo che, ritorto, aiuta il
fratello più giovane a fuggire da casa, come aveva fatto lui quando
aveva quell'età. Ecco, la storia personale di Natale sembra quella di un
figliol prodigo, incapace di decidere tra la fuga e il ritorno.
Nel 1990 Natale aveva
scritto una breve raccolta di poesie, intitolata «Ritratto di un'amica
nel tunnel», che appare per la ma volta nella presente raccolta. È una
raccolta che per certi aspetti (lo slancio, il desiderio, l'ammirazione,
la bellezza, il trasporto...) avrebbe potuto scrivere cinquant'anni
prima. Sono poesie d'amore per la giovane amica che è entrata in uno dei
tanti tunnel che la vita scava per perderci. E sono poesie di un amore
impossibile, perché al vecchio poeta è negato di amare, so non di
cantare, la giovane prompente bellezza del corpo femminile. Sono poesie
belle, che si legano per vocabolario e slancio a quelle della prima
raccolta, ma ora con esitante prudenza, con castità sapienziale. Direi
che anche se cronologicamente non sono le ultime, chiudono bene il
lavoro poetico che Roberto Natale è venuto sin qui compiendo.
Spartaco, Gamberini
STORIA DI FAMIGLIA IN SCENE
Roberto Natale è uno dei
tanti spezzini che si sono realizzati altrove conservando tuttavia
gelosamente nel profondo dell'animo il ricordo di questa città avara di
tutto verso i propri figli tranne che di nostalgia. E di struggente
nostalgia è impregnato dalla prima all'ultima pagina questo libro, per
molti versi originale, che Roberto (un valido uomo di cinema che si è
fatto le ossa dietro la macchina da presa pur senza mai tradire la
penna) ha voluto scrivere adottando uno stile, per così dire,
didattico-sperimentale (gli addetti ai lavori lo definiscono
plurilinguismo). Il quale consiste nello sviluppare la narrazione in un
complesso e variopinto mosaico di versi, prose, immagini sbiadite,
annotazioni storiche, malinconiche annotazioni suggerite all'Autore
dalla rivisitazione del proprio album di famiglia e quindi suddivise in
scene come si trattasse della sceneggiatura di un film ideale. Da questo
riuscito collage è sortito alfine un libro, ma sarebbe meglio dire un
messaggio poetico che l'Autore indirizza a un piccolo e disincantato
amico con la segreta speranza che «almeno una parola sia messa a segno».
Probabilmente, Roberto Natale si illude. Considero infatti un'illusione
sperare che l'esperienza dei vecchi possa essere opportunamente
sfruttata dai giovani. Com'è un'illusione considerare la storia maestra
di vita: se così fosse vivremmo in una società perfetta, mentre in
realtà ogni generazione incorre quasi sempre negli stessi errori in cui
sono incorse quelle precedenti. Ma torniamo a Roberto Natale. Spezzino
doc nato nel 1921 quella che Mussolini definì la «classe di ferro» e che
per colpa sua registrò il più alto numero di Caduti nell'ultima guerra)
egli ebbe la ventura di crescere all'ombra di un padre squadrista e di
una madre di famiglia socialista (quella di Omero Del Moro, notissimo
antifascista spezzino). La sua rievocazione poetica si snoda dunque fra
le suggestioni e le malinconie di quel «Ventennio» che, nel bene e nel
male, resiste ostinatamente all'archiviazione negli scaffali della
memoria. I versi, le prose, le filastrocche, le immagini d'epoca sono
precedute da suggestive descrizioni d'ambiente in schietto stile
cinematografico, molte delle quali assai ben riuscite. Come, scelgo a
caso, la Scena 13: «Casa materna. Interno giorno: Eccomi lì - in
grigioverde, fez e pugnale al fianco - imbranato davanti a nonno Nicola
che mi guarda perplesso...» Oppure la Scena 27: «Campiglia. Dopolavoro.
Interno sera: Camicie nere, donne agghindate, bandierine tricolori, un
grammofono a tromba...» E così, di scena in scena, l'Autore confida al
suo giovane e improbabile ascoltatore i suoi sogni, le sue rimembranze e
le sue speranze, cadenzate all'esterno dagli. avvenimenti storici che
accompagnarono la sua adolescenza: le adunate, la guerra d'Abissinia,
quella di Spagna e, infine, quella «vera» coi primi bombardamenti («I
fasci luminosi dei riflettori si incrociano nel cielo buio»), la vita
nei rifugi («Fragore vicino di bombe. Colpi d'antiaerea. Ronzare di
motori...»), la caduta del regime, l'8 settembre, la Resistenza e la
guerra civile («Dei tanti che sparavano / molti i disperati / che
sparavano / à quelli che erano stati»). E infine la Liberazione coi
festosi cortei in via Chiodo e piazza Verdi. Qui termina il messaggio «didatticosperimentale»,.
ma soprattutto poetico che Roberto Natale indirizza speranzoso al suo
piccolo ipotetico amico. Il quale, a pare mio, non potrà non invidiarlo
almeno per un particolare. Roberto Natale, e tutti noi sopravvissuti del
«Ventennio», avevamo un bersaglio preciso contro cui scaricare le nostre
rabbie le nostre frustrazioni. Lui invece...
La Spezia,
1998 Arrigo Petacco
STORIA
DI FAMIGLIA IN SCENE
PREMESSA
Quando si affronta -
anche con un'ottica «familiare» - un periodo così lontano e prossimo
come il ventennio fascista, ci si trova di fronte alla difficoltà di
quella complessa temperie in cui si sono sviluppati eventi personali
connessi a quelli politici e militari così densi da dare sconvolgimenti
epocali. Tanto più che questa tranche storica - con i suoi termini, le
sue realtà specifiche - più che storicizzata è stata obliterata da una
rapida entropia per rimozioni, enfatizzazioni e rapidi rivolgimenti
politici e di costume. Eppure, proprio alla luce degli avvenimenti in
corso - che in quel ventennio hanno ancora radici e memorie - m'è parsa
utile una testimonianza, che riportasse però una più comprensibile
agnizione per chi quel ventennio non ha conosciuto o per diversi motivi
ha rimosso. Da qui l'idea di una rivisitazione plurilinguistica
dell'argomento, usando - col nucleo originario versificato e in parte
rivisto, pubblicato circa un decennio addietro dalla rivista Lettera con
Storia di famiglia, stallo, utopia - usando, dicevo, la forza acclarante
d'altri linguaggi complementari ad inquadrare storicamente la
narrazione. E il tutto nel tentativo di creare corrispondenze
dialettiche tra le varie componenti (cortocircuito analogico tra le
vicende esistenziali private e le sovrastrutture politico-sociali allora
autoritarie), rievocando, sommessamente, quel climax in cui il corpo
centrale versificato possa trovare, spero, la sua «cultura primordiale»
e - massima ambizione - la sua contemporaneità.
RN.
WEEK END COL PADRE
Sai, ad ogni week-end
(ma allora si chiamava sabato fascista), andavo con mio padre, e spesso
mio cugino Attilio, a Campiglia, dove viveva la famiglia paterna. E del
paese, mio padre, già piccolo gerarca di regime, era un po' il boss
(come diresti tu, oggi) e per questo chiamato «il podestà». E certo per
me era un bel salto, passare da un ambiente familiare socialista - ma
clandestino, poiché gli avversari politici del regime erano fuori legge
e perseguitati - ad una influenza educativa paterna di segno opposto.
Anche se devo dire che il nonno Baltrò non era certo d'accordo con le
idee del figlio. Sai, di allora ricordo una canzone: