La mia gente

10-06-12

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JOLANDA  STURLESE

fine anni 20 gruppo di famigliaAgli inizi del 1900 nasce a Campiglia Jolanda Sturlese; trascorre nel borgo i primi venti anni della sua vita, dopodiché si sposa e va a vivere in città, a La Spezia. Al termine della seconda guerra mondiale, con la famiglia si trasferisce a Torino, ove trascorre il resto della sua esistenza, spegnendosi negli anni '90. Dedica la sua vita alla famiglia, trova però anche il tempo di coltivare una passione creativa: scrive infatti alcuni romanzi che descrivono realtà dei tempi in cui ha vissuto. Seguiranno alcuni brani di uno di questi, intitolato "La mia Gente", pubblicato nel 1976: rappresenta un quadro con lo spaccato della realtà che si viveva a Campiglia agli inizi del 1900, ed avanti fino agli anni '30, seguendo in particolare personaggi della sua famiglia, della stirpe dei "Giacobbe",  e di campigliesi che all'epoca vivevano ed animavano il paese. 

 

LA  MIA  GENTE

 

SETTANTA  ANNI  DI  STORIA

E
ra una giornata di Novembre, una di quelle giornate in cui il cielo è scuro, e gli scrosci di  pioggia  pioggia si susseguono a raffiche di vento gettando a terra le foglie ingiallite degli alberi trascinandole lungo le strade. In quel giorno si era svolto il funerale del mio nonno materno. La mamma e la nonna materna erano rincasate silenziose, e dall'aspetto molto tristi.  Avevano gli occhi rossi, ed assieme a mio padre rievocavano fatti che riguardavano il nonno defunto. Io allora avevo cinque anni, mia sorella Irma otto e mio fratello Mario dieci. Eravamo irrequieti come lo sono tutti i bimbi di quell'età, ed io non riuscivo a rendermi conto della situazione di questo avvenimento, perché certi sentimenti bisogna provarli quando si è nell'età adulta per poterli capire. Per me, vedere la mamma e la nonna piangere, era una cosa talmente strana, che qualificavo un fatto fuori posto.
A mio giudizio, allora, piangere era sinonimo di capricci di bimbi, e, che solo a loro potesse essere concesso. Di questo nonno ricordo poco. Solo il suo aspetto fisico, di un vecchio alto di statura, eretto nel portamento, con una lunga barba bianca, fluente, che gli pendeva a metà del petto, gli occhi azzurri, capelli bianchi, radi, un po' stempiato, con presenza signorile e disinvolta che non dimostrava i suoi ottant'anni di età. Aveva lo sguardo vivace, penetrante, freddo e spesso io e Irma sedevamo sulle sue ginocchia per ascoltare le favole che ci raccontava; e mentre con la nostra fantasia seguivamo i personaggi del racconto, accarezzavamo con le nostre manine quella barba sempre ravviata e pulita.
Mario  bevevo a bocca aperta tutto ciò il nonno Giobatta gli raccontava, perché questo nonno, aveva proprio dei fatti da raccontare, veri, ai quali egli stesso aveva partecipato.
Era un vecchio soldato valoroso che aveva preso parte attiva alle battaglie di Solferino e S. Martino e, tra coloro che si coprirono di gloria nella spedizione della guerra in Crimea, da cui aveva meritato una medaglia di bronzo al valor militare, con l'effigie del re.
Con quanta commozione il nonno rievocava gli avvenimenti, e con quale interesse Mario ascoltava!
La nonna materna Maria, era piccola di statura, e molto affettuosa.
Nonostante i suoi settantacinque anni, aveva i capelli nerissimi con una scriminatura nel mezzo della fronte, che le faceva assumere l'aspetto di una bella bambolona, preparata con cura dalle mani di una bimba per essere allineata fra i giocattoli più importanti.
Parlava poco la nonna Maria, ma in cambio della sua scarsa comunicabilità, mi concedeva spesso  piccoli regali, come caramelle, fichi secchi, noci, uva passita; ma ciò che apprezzavo tanto di lei era l'invito a casa sua.
Con quanta gioia accettavo di andare a trascorrere qualche giorno con lei ! La sua casa era situata all'estremità opposta del paese, ed un po' lontana dalla mia. Era una casa rustica, ma a me tanto cara. Sembrava una di quelle casette di cartone che si usano per guarnire il paesaggio del presepe. Aveva una scaletta di lastre di pietra irregolari a due rampe, esterne alla casa dalla quale si entrava nelle stanze superiori.
La parte inferiore della casa, con la cantina, e la stanzona ove la nonna faceva il bucato con l'antico sistema della cenere era al pari del giardino. Nella cantina vi era il pozzo che riforniva di acqua di sorgente la casa.
L'acqua era sempre freschissima e pulita. Veniva attinta dal pozzo abbastanza profondo per mezzo di un secchio di rame legato ad una corda azionata da una carrucola.
Lateralmente alle due gradinate, vi erano piante di gerani, garofani bianchi piccoli, viole del pensiero che pendevano dai loro vasi emanando delicati profumi.
In verità non erano vasi da fiori veri e propri, ma pentole in terracotta, o in ferro smaltato, ormai in disuso perché screpolate o bucate. La parte esterna della casa era senza intonaco, lasciando così vedere le pietre grigiastre e la calcina anch'essa scura, logorata dal tempo e dai fenomeni atmosferici. Da un lato della casa scorreva in superficie un rigagnolo di acqua sorgiva, che dava vita ed ospitalità ad un piccolo canneto.
Nella terra umida ed un po' ombrosa si scorgevano piantine di capelvenere, di menta e di felci. Davanti alla scaletta d'ingresso troneggiava una grossa pianta di noce, che nella stagione estiva, coi suoi rami frondosi, proteggeva ogni fiore ed ogni cosa dalla calura. Le due camere del piano superiore erano abitate dalla nonna, ed arredate con molta semplicità. Nella stanza da letto, un letto a due piazze in ferro battuto dipinto con vernice color oro, un cassettone in stile '700, con lo specchio piccolo dello stesso stile, due comodini in noce con piccole alzate, due sedie impagliate ed un armadio semplice un pò logoro.
Dalla parete a capo del letto pendeva un crocifisso in legno, anch'esso dipinto in oro ma molto artistico e lavorato con rifiniture da esperto.
Nella cucina che serviva alla nonna anche da sala da pranzo un camino con frontale in marmo bianco un po' scurito per il tempo e per il fumo della legna che vi si bruciava. Questo caminetto destava la mia ammirazione per le piccole sculture floreali che portava scolpite.  Nel caminetto pendeva una catena che serviva per appendervi i paioli forniti del manico ricurvo, ed appoggiato sul piano interno del camino un treppiedi di ferro dal lungo manico per posarvi padelle e casseruole. Una vecchissima credenza a due ante con la sommità a semicerchio nel centro, ed ai lati di questo due sfere in legno sormontate da una punta.
Anche questo mobile rispecchiava l'artigianato del '700 e conteneva piatti, bicchieri e stoviglie. Appesa al muro una intelaiatura in legno dalla quale pendevano tegami e padelle in rame, lucenti come specchi.
La nonna Maria aveva un bel gatto con pelo rossiccio. Era grosso ed anche molto aggressivo, e, non permetteva di essere toccato od accarezzato da alcuno. Era un po' selvatico, forse perché viveva in un ambiente solitario e lontano dai bambini. Solo la nonna poteva fargli qualche carezza. Di questo gatto ricordo le sue prodezze di cacciatore. Era solito catturare dei topi, e degli uccelli; uccelli piccoli naturalmente. Qualche passero o fringuello coi quali giocava dopo averli catturati, fino a stordirli e poi ad ucciderli. Se la nonna era fuori di casa, quando il gatto faceva la caccia, non mangiava la preda fino al ritorno della sua padrona, poi divorava le sue vittime. Non ho mai potuto capire il comportamento di quel gatto. Forse voleva dimostrare che sapeva fare qualche cosa, da meritare un elogio e qualche carezza.
Nella primavera del 1913 la nonna Maria morì di polmonite, lasciando intorno a me tanto vuoto e tanto rimpianto. La mia nonna paterna abitava nella medesima casa ove abitavo io; lei al primo piano, io al secondo. Conviveva con lo zio Vittorio, fratello di mio padre, e scapolo. Questa cara vecchietta, piccola di statura coi capelli bianchissimi ricciuti raccolti in una piccola crocchia dietro il capo, fermata con forcelle di ferro, sembrava avesse il viso di carta pesta, a causa delle profonde rughe di cui era ricoperto. Quel viso piccolo e regolare aveva la fronte incorniciata da tanti graziosi ricciolini.
Nonna Teresa era religiosissima e, nonostante la sua modesta istruzione elementare, sapeva recitare tutte le preghiere in latino, rispondere alla S. Messa ed ai Vespri. Narrava tanti episodi del Vangelo, la "Resurrezione di Lazzaro", la "Moltiplicazione dei pani e dei pesci" ed il miracolo del vino alle "Nozze di Cana", e molti altri.
Unitamente, alla mia sorellina, fratello, cugino e cugine, ascoltavo ogni racconto con tanto interesse, e, senza batter ciglio.
La nonna aveva tanta pazienza e costanza, nel farci ripetere il Pater nostro, l'Ave Maria, la Salve vere, ma senza capirne il vero significato. "Dovete pregare sempre Gesù e la Santa Vergine che vi ascoltano e vi premieranno facendovi crescere buoni e forti" ci diceva. "Ricordatevi che Gesù Regina e tante altre preghiere in latino, che noi dicevamo con parole abbastanza assomiglianti alle vede tutto e tutti, e conosce anche i nostri pensieri. Sa distribuire le grazie a chi è buono e prega". Domandai alla nonna se pregando mattino e sera, avrei potuto ottenere qualche grazia, poiché allora, all'età di sei anni, per grazia intendevo la concessione di una mia qualsiasi richiesta. La cara e paziente nonna Teresa mi assecondava senza dilungarsi in dettagli, o spiegazioni.
Ad ogni Natale mi veniva regalata una bambola di stoffa o di legno.
La bambola di legno aveva la testa in porcellana, l'altra di panno. Quanti baci distribuivo su quelle guancette fredde di porcellana, e su quelle di stoffa! Ma quei visi freddi e senza espressione non mi piacevano.
Capivo che erano solo delle cose senza calore, non umane. Mi piacevano invece i bambini veri, perché piangevano, si muovevano, succhiavano il latte, sorridevano, erano proprio di carne, più belli delle bambole.
Pensai di poter ottenere la grazia di avere in dono una bambola vera, di carne perché la nonna mi aveva detto che pregando avrei meritato il premio. Pregai per tante sere la Santa Vergine e Gesù chiedendo la bambola di carne, domandai sempre la stessa cosa. Pregustavo l'attimo in cui avrei potuto abbracciare la mia bambola preferita che poteva muoversi e sorridermi,  alla quale avrei dedicata l'intera giornata ed i giochi che svolgevo con le mie cuginette e sorella. Il dono o la grazia, come solevo chiamarla io, non giungeva.
Ogni mattino al mio risveglio il pensiero era alla bambola di carne, e correvo felice a guardare se nella cullina che aveva sempre ospitato le bambole vi fosse stata la bambina vera che desideravo. Rimasi molto disillusa e volli sapere dalla nonna il perché di questo dono mancato, nonostante le mie assidue preghiere mattina e sera. La nonna sorrise alla mia domanda ingenua, mi accarezzò, mi strinse a sé, e mi disse che i bimbi non sono giocattoli, ma persone che abbisognano di tante cure, che le bambine non potrebbero prestare loro.  Gesù manda i bambini alle donne già grandi perché esse sono forti e possono prodigare alle piccole creature tutte le cure necessarie.
Mi disse inoltre che quando Gesù decide di mandare ad una mamma un bambino viene anche predisposto che essa abbia i seni pieni di latte per poterlo nutrire. Il bimbo appena nato non ha i denti ed e indispensabile che possa trovare il cibo per vivere e crescere succhiando il latte materno. Le bimbe hanno i seni troppo piccoli ed il latte mancherebbe.
La spiegazione della nonna mi aveva convinta, però in cuor mio, segretamente, ammiravo ed invidiavo le mamme che potevano stringere fra le loro braccia quelle loro bambole di carne che sapevano ridere, piangere e succhiare il latte.
Nella stessa casa abitavano anche i miei cuginetti e cuginette. Anche loro sempre vicini alla nonna Teresa che, con la sua voce dolce e convincente, sapeva tenerci a se come 1a chioccia, col suo pigolio, sa trattenere i pulcini. Le nostre mamme erano sempre molto impegnate per i piccini che avevano da allevare e per la cura della casa. Mia mamma in più aveva anche l'impegno del ristorante.
Le favole ed i racconti sacri di nonna Teresa ci interessavano, e se si trattava di prendere parte attiva a qualcosa eravamo sempre pronti.
Ogni anno noi attendevamo la settimana che precede la commemorazione dei defunti con ansia, non per la convinzione di rendere suffragio ai morti con le nostre preghiere, e con le luminarie che dedicavamo loro, ma per il piacere di toccare con le nostre mani ceri e candele che tenevamo scrupolosamente accesi sul banco per tutta la durata della messa.
La nonna bussava alla porta della camera alle sei del mattino, quando dormivamo ancora profondamente, ma il pensiero del "cerieto" ci faceva saltare dal letto in tutta fretta per avviarci ad assistere alla S. Messa.
Il "cerieto" era una candelina piccola di dimensioni, ma lunga anche qualche metro, arrotolata su se stessa come si fa con il filo e la lana: il gomitolo aveva una base per poter essere posato sul banco, però noi dovevamo prestare molta attenzione e svolgere il gomitolo man mano che la candelina consumava. I "cerieti " erano colorati in rosso, in verde, in giallo ed anche in altri colori. Provavamo la più grande gioia per la concessione di poter toccare i fiammiferi e le candele accese.
Si sentivano squillare le note della canzone "Tripoli bel suol d'amore".
Era stata occupata da poco la Libia come colonia italiana.  Mio fratello Mario aveva un vestito ed un berretto alla marinara, sul berretto un nastro nero con la scritta Tripoli. Come mi piaceva quel berretto con la scritta dorata e come brillava quella seta gialla con la quale era stata ricamata la parola Tripoli !
Mario era felice nella sua divisa da marinaretto, e sapeva darsi anche l'aria del vero marinaio, atteggiandosi al  passo di marcia, all'attenti ed al saluto militare portandosi orizzontalmente la mano alla fronte.
Gli uomini parlavano di guerra, avevano sentito dire da qualcuno che da un giorno all'altro avrebbe dovuto succede qualche cosa di grave. I più di questi uomini erano contadini, e parecchi neppure capaci di leggere il giornale. Quali notizie avrebbero potuto sapere? Fra i contadini vi era un muratore che sapeva leggere, e fornire le novità della vita politica: Giorgio lo zoppo.
La sua menomazione gli era stata procurata dalla caduta da un ponte di una casa in costruzione, per cui fu necessaria l'amputazione della gamba fino alla coscia. Giorgio era un comasco di nascita, arrivato a Campiglia all'inizio del secolo, perché come massone diceva di essere un perseguitato politico. Era intelligente, sapeva leggere il giornale che si faceva portare ogni giorno dal postino, e lo spiegava ai contadini di Campiglia. Il giornale di quei tempi aveva la testata intitolata "La Tribuna".  Malgrado la sua menomazione, Giorgio svolgeva ancora dei lavori da imbianchino o muratore.
Lavori, s'intende, che gli consentivano di non salire sui ponti perché con il rigido ed ingombrante arto di legno, i suoi movimenti erano diventati lenti ed anormali. Da molti anni Giorgio era un cliente fisso presso l'albergo dei miei genitori, non badava alle fatiche ed era un grande lavoratore. Col suo lavoro sapeva rendersi indipendente e riusciva perfino a realizzare qualche modesto risparmio che teneva depositato presso l'ufficio postale di Marola, paesino che dista da Campiglia alcuni chilometri.
Di carattere taciturno e con molta cortesia nel trattare con chi lo circondava, aveva saputo conquistare stima e simpatia da tutti. Raramente Giorgio alzava il gomito, come suol dirsi, ma, se qualche volta gli succedeva, diventava loquace fino all'eccesso. I fumi del vino lo facevano inveire contro il re, contro i preti, contro i ricchi.
Mio padre che era un uomo buono e paziente, sapeva convincerlo ad andare a letto per poter smaltire la sbornia senza dare spettacolo. Il giorno seguente Giorgio ritornava taciturno e si scusava con mio padre del suo comportamento.
In quei tempi le nazioni non erano progredite negli armamenti come lo sono ora, nel momento in cui rievoco i fatti; perciò era necessario armarsi per difendersi da eventuali nemici. Il comando supremo delle forze armate ideò e fece costruire con la supervisione del genio militare  una fortezza antiaerea a Campiglia. Furono iniziati i lavori a pieno ritmo per la costruzione della fortezza , scavate profonde gallerie nella montagna per depositarvi armi e munizioni. Nacque una caserma e diverse casermette, alloggi per ufficiali, una piazza spaziosa ove furono sistemati cannoni di grosso calibro ed una strada carrozzabile che allacciava la fortezza alla città di La Spezia; fu la prima strada di collegamento verso la città.
La fortezza si chiamò Costa Rossa dal colore della terra e della roccia che presenta questo costone di monte. Era stata camuffata intelligentemente con alberi di acacia, di pino, di ontano che, unite alla vegetazione spontanea del luogo, davano il senso del bosco immacolato a chi l'avesse osservato dall'alto dall'aereo. Il paese vero e proprio con le vecchissime case è costruito a ridosso del mare aperto e, sulla collina di fianco alla fortezza di Costa Rossa si trova, più in alto, il forte di Castellana. Questa vecchia fortezza di difesa fu costruita all'inizio del 1800, ideata dall'imperatore Napoleone e rivela in tutta la sua struttura la sua età.

Il sistema delle piccole aperture su tutti i muri esterni che servivano per introdurvi le canne dei fucili erano chiamate per l'appunto le fuciliere. Intorno al perimetro murale della. fortezza un profondo scavo, e da un lato il ponte levatoio di un tempo. Nell'arco di tempo di circa duecento anni, tutto è mutato per merito delle grandi e nuove scoperte della scienza. La vecchia costruzione del forte napoleonico colle sue fuciliere sulle mura ciclopiche invase dall'umidità, ed un po' screpolate dal tempo, e ora sostituita da modernissime casette prefabbricate, posate sui terrapieni intorno alla fortezza fra il verde scuro dei pini. Qui, militari della marina specializzati in scienze elettroniche eseguono piani, militari che potranno, se occorrerà un giorno, usare come difesa contro gli aggressori senza dover ricorrere alle vecchie fuciliere napoleoniche ormai inutili e sorpassate. Proseguendo sempre lungo il costone della collina si giunge ad un'altra importante fortezza di valore strategico positivo; è Muzzerone. Sorge su una scogliera rocciosa a strapiombo sul mare per un'altezza di quattrocentocinquanta metri circa. Dopo questo muro naturale insormontabile, toccato solo dal mare ora carezzevole ed ora minaccioso con onde alte e feroci per la veemenza con cui arrivano, si continua percorrendo la zona rocciosa, brulla, con pochi arbusti e qualche pianta di ulivo ove gradatamente il terreno degrada fino alla ridente insenatura di Portovenere. Dopo un brevissimo tratto di mare l'isola deIla Palmaria e del Tino.
Queste due piccole isole sono quasi deserte e da qualche anno la Palmaria  è diventata località scelta da turisti che vanno a trascorrervi le ferie estive. Sono luoghi rustici che offrono allo spirito silenzio, tranquillità, pace, aria pura e tanta libertà di vita pratica che nelle città non si può trovare. A Portovenere la famosissima grotta di S. Pietro che Byron cantò con tanto amore nei suoi scritti e che lo ospitò nel suo ventre silenzioso pieno di mistero ed ascoltare noi pure quella voce misteriosa che sanno percepire le persone che possiedono la grazia divina della sensibilità al bello ed al sublime. Nella grotta di Portovenere era rimasta l'eco del canto melodioso delle sirene che ogni sera, al calar del sole, esse solevano rivolgere ai giovani marinai che là ancoravano le loro barche. 
Campiglia , a quattrocentodieci metri sul livello del mare, e' una piccola frazione, la più elevata del comune di La Spezia. Nel 1913, e fino al 1920, poteva contare non più di quattrocentocinquanta abitanti. Un'unica scuola elementare ed una sola insegnante per tutte le classi.
Questo piccolo paese, allora, era un paradiso di tranquillità, una perla sperduta nel verde dei pini e dei castagni, ove si poteva ascoltare, in primavera, il melodioso gorgheggio degli usignoli. Non a torto chi scrisse di Spezia per il suo golfo dalle ridenti insenature lo denominò "Golfo dei Poeti".
Anche il professore avvocato Edoardo Vercelli, preside allora della scuola normale (ora istituto magistrale) dedicò un libro di poesie al golfo di La Spezia esprimendosi per Campiglia con tono veramente poetico ed ameno dicendo: "Campiglia, fiore dei colli, tu sei una meravigliosa oasi di pace nella quale vorrei vivere sempre e morirvi a suo tempo sdraiato all'ombra dei tuoi pini con le metamorfosi di Ovidio tra le mani !".
Allora il paesaggio era rustico, invitante. In primavera si udivano i canti allegri delle contadine intente a legar le viti o le fascine della legna o a falciare il fieno.
La parte del paese che digrada sul mare era tutta coltivata a viti. Coltivazioni a terrazze che i contadini chiamano "fasse". Quanta fatica per coltivare queste terre! L' accesso alle fasse è permesso solo da stretti sentieri ed interminabili scalinate in pietra. In quei tempi i contadini curavano con tanto amore le loro terre e, nei mesi di Maggio e Giugno, era tutto un grande movimento di braccia e gambe per l'irrorazione del verderame che essi praticavano ai tralci delle viti.  Donne e uomini erano impegnati a fondo in questo faticoso lavoro. Donne coi bariletti contenenti venticinque o trenta litri di verderame posati sul cercine di Juta tenuto sul capo e giovani uomini con la macchina a mò di zaino sulle spalle, instancabili nel muovere la manovella che azionava lo stantuffo per lo spruzzo del liquido curativo. Quando si incontravano lungo le scalinate, come per scambiarsi un saluto allegro e un po' canzonatorio, ma canzonatorio nel senso buono, si dicevano frasi come: "Anche tu oggi sei diventato macchinista? ", alludendo alla macchina che portavano sulle spalle, oppure: "Oggi ti sei pitturato di azzurro anche tu per piacere di più alla tua bella? ".  E con quanta solerzia eseguivano questo lavoro ! Bisognava essere guardinghi per salvaguardare il raccolto, anche se era misero.
Allora l'Italia era contadina e tutti dovevano vivere con molta modestia, sfruttando il più possibile la terra per trarre da essa quanto era necessario per vivere. Ciononostante la gente viveva felice ed era piena di iniziative. Ricordo ancora, come fosse ieri, l'allegria di quei giovani col viso abbronzato dal sole, con le mani callose  i piedi scalzi, con indosso una camiciola di tela scolorita, bagnata di sudore  ed il viso infarinato di zolfo fino all'inverosimile.
Campigliesi_nel_1937 Già, anche il lavoro dello spargimento dello zolfo richiedeva fatica e prontezza. Nelle nottate di maggio e giugno, in cui il clima è molto umido, un parassita della vite chiamato "peronospora" depone le uova sulle foglie e sui grappoli appena sbocciati compromettendo il raccolto, se non viene combattuta prontamente con lo zolfo.
La pianta soffrirebbe fino a perdere tutte le foglie, ed i grappoli resterebbero con acini piccoli, duri, grigiastri e privi del succo destinato a diventare vino. Anche questo lavoro era logorante poiché i contadini che dovevano impolverare le viti usavano un sacchetto di tela Juta a trama rada. Questo lavoro doveva essere fatto a mano prima dello spuntar del sole e scrupolosamente su ogni tralcio, poiché la polvere anziché cadere sulle foglie malate sui grappoli, appena nati sarebbe volata fuori della pianta senza recarvi nessun beneficio per il sopraggiungere della brezza mattutina. Dopo questo lavoro, gli occhi dei contadini erano rossi e lacrimosi, da non poter guardare per qualche ora la luce del giorno, neppure con le palpebre socchiuse. In quelle lontane, domeniche le coppie innamorate, trascorrevano le ore pomeridiane nella sala da ballo del paese o sulle aie a ballare al suono di un pianoforte a manovella, oppure di una fisarmonica suonata da un vecchio ex operaio dell'arsenale di La Spezia, che si recava a Campiglia da Marola percorrendo a piedi diversi chilometri della strada mulattiera. I giovani gli regalavano qualche bottiglia di vino in compenso.
Al lunedì tutti ritornavano felici al duro lavoro con lo spirito temprato dallo svago domenicale. Nessuno allora contava le ore di lavoro come si fa oggi, ma la giornata iniziava prestissimo all'alba e finiva al tramonto. La piazza principale del paese, posta sulla cresta della collina, aveva da un lato uno spiazzo erboso. Sulla piazza la chiesetta di S. Caterina si unisce al campanile spostato un pò indietro per appoggiarsi al muro di chiusura del cimitero.
II campanile ha una costruzione inconsueta. E' senza cupola: un grosso parallelepipedo terminante con un tetto orizzontale, quadrato a terrazza. Tutte le sue mura esterne sono rivestite in pietre rettangolari, accuratamente scalpellinate, direi quasi lucenti da sembrare di madreperla. Il tempo non è riuscito a lasciare su queste pietre perlacee nessuna impronta malgrado che per quasi un secolo siano state schiaffeggiate dal vento in ogni direzione e bagnate dal salmastro che il maestrale gli ha gettato addosso.
Sul tappeto erboso erano piante di pino, di quercia, di acacia e di platano piantati in modo da formare un quadrilatero nel quale giocavamo da bambini scambiandoci il posto velocemente. Il gioco veniva chiamato dei quattro cantoni. Dei muriccioli in pietra grigiastra erano le panchine della piazzetta di allora. Da questa piazza si può godere uno splendido panorama. Si ha quasi l'impressione di trovarsi in un'isola anziché in un promontorio della penisola qual'è realmente; per l'immensità dello spazio in cui può arrivare l'occhio osservando il mare dal lato ponente del paese e del golfo incuneato fra le punte di Portovenere da un lato, e la punta ove sbocca il fiume Magra dall'altro.
Un muricciolo in muratura racchiudeva la piazzuola dal lato in cui non cresceva l'erba ed il terreno sabbioso presentava discontinuità di formazione alla superficie. Il dislivello era dovuto ai rigagnoli dell'acqua piovana, specialmente quando i violenti temporali si abbattevano sulla località. Il muro di recinzione serviva anche da sostegno alla piazza poiché è situata nel punto ove il costone collinare è più alto. Allineate lungo il muretto vi erano grosse piante di quercia, di pino, di acacia e nei giorni di festa gli uomini, specialmente più anziani, vi sostavano scambiandosi opinioni sulla politica e sulle promesse del raccolto. Erano uomini semp1ici che spesso, interpellando Giorgio lettore ufficiale del giornale, facevano deduzioni grossolane sui fatti del giorno e sulla politica.
La  parte di terra situata alla base del muro di sostegno era un modesto ritaglio informe; un piccolo bosco, o meglio sarebbe dire, una pietraia trascurata ove si vedevano cocci e rottami di stoviglie, arbusti di piccole dimensioni da un lato, e erbacce spontanee con cespugli di piante di more che scendevano fino alla sottostante strada mulattiera che conduce alle scalinate dei vigneti. Questo pezzo di terra incolto e, a prima vista di poco valore, lo avevano denominato "pozzone" , da poggio, luogo in pendenza. Mio padre lo acquistò da un vecchio contadino e con aiuto di Mario lo trasformò in un meraviglioso orto e giardino fiorito. Il "pozzone" oltre alle erbacce e le piante di more aveva anche piante di alto fusto nella parte più larga e sassosa.
Querce, acacie, pini e fra i pini uno secolare alto e grosso che con la sua chioma aghiforme oltrepassava l'altezza del muro di sostegno e gettava la sua ombra sulla facciata della chiesa.
Il profumo dei fiori di acacia, dei pini e del sottobosco davano il senso della foresta gonfiando i polmoni della purezza di quell'aria balsamica. Durante le giornate chiare e senza foschia, si possono osservare da questa piazza appoggiandosi al muretto di sostegno, le isole di Corsica, Capraia, Gorgona e, molto in lontananza, la cordigliera dei monti francesi. Osservando il panorama dall'altro lato della piazza, la grande distesa del golfo ove è situato l'arsenale militare di La Spezia e le montagne ove biancheggiano le cave di marmo delle Apuane che gli fanno da corona; la lunga passeggiata a mare della città, ed il palazzo dove risiede la capitaneria di porto. Di lassù si possono udire perfino i colpi di maglio che gli operai dell'arsenale imprimono pesantemente ai vari metalli. Da un lato della chiesa, per mezzo di un viottolo stretto e poco battuto, si giungeva ad una vecchissima costruzione del 1700. Questo viottolo esiste ancora oggi e la costruzione in sasso è un mu1ino a vento ormai in disuso, ora usato come ripostiglio per la legna ed il fieno. La costruzione è a forma cilindrica a un piano, con una sca1etta esterna in pietra che porta al piano superiore.
G1i ultimi gradini che delimitano la rampa nel punto più alto sono mancanti, la porta del piano terra ha un frontespizio in pietra arenaria, con scalpellinata una frase in cui si riesce a leggere "Anno del Signore 1840". Da un lato della piazza erbosa ove è situata la chiesa, il cimitero ed il campanile, sorge anche la casa, ove sono nata io e tutte le mie tre sorelle, e due fratelli. E' una casa a due piani con scala interna in marmo bianco ed una ringhiera in ferro molto artistica, pitturata di verde.
Il portone di entrata alla casa ha il pavimento di grigie lastre di pietra scalpellinate a piccoli sbalzi ed il soffitto con una travatura grezza, scura, fatta con piante di castagno che mostrano il loro taglio primitivo impresso dall'ascia, fatto a braccia, perciò poco raffinato né tornito come furono fatte in anni che seguirono. Tutte le stanze della casa erano ben rifinite con pavimenti in piastrelle di cemento, decorate a stelle o a fiori e sui soffitti delle camere decorazioni di paesaggi vari: un ponte con il ruscello che scorre, oppure una collina verdeggiante col sole che sorge o delle barchette con vele variamente colorate sul mare azzurro. Queste decorazioni allora erano ritenute lussuose e venivano fatte nelle case nuove. La mia casa era stata costruita nel 1890, perciò, vicino alle vecchissime casette addossate le une alle  altre con camerette piccole ed i soffitti molto bassi, questa era la casa nuova.
Dalle finestre di quelle poverissime case che non avevano un balcone, o un pezzo di giardino perché  le vecchie costruzioni allora erano fatte con criteri primitivi, pendevano latte vecchie, arrugginite. Latte che avevano contenuto conserva di pomodori o acciughe, ed alle quali avevano messo un manico di filo di ferro per poterle appendere ad un chiodo fuori di quelle piccole finestre che davano all' ambiente una luce mediocre. Da quelle vecchie latte, scendevano piante di garofani rossi che rallegravano i vecchi muri e quelle piccole finestre senza tende. Ai fiori si mescolavano profumate piante di basilico e maggiorana. I muri esterni della mia casa natale erano decorati in giallo e rosa, il colore caratteristico che ancora oggi viene usato per le nuove costruzioni in Liguria. Le persiane erano e sono ancora di un bel colore verde bandiera che contribuisce a completare armoniosamente il quadro di tanta semplicità. Affacciandosi alle finestre di questa casa si può osservare la distesa del mare aperto da un lato, con le isole nominate, e dall'altro il golfo di La Spezia e le cave di marmo bianco di Carrara. Senza uscire dalla casa e spostandosi solo da una stanza all'altra, si può assistere al mattino alle aurore stupende, sfolgoranti di luce rosata ed alla sera ai tramonti infuocati ove il sole scende nel punto in cui sembra che il mare ed il cielo si tocchino in lontananza in una linea orizzontale distinta.
Intanto i lavori per la costruzione della fortezza di Costa Rossa progredivano con ritmo sempre più veloce ed il paesino che aveva abitazioni limitate al modesto numero dei suoi abitanti, dovette ospitare per qualche anno molti uomini operanti ciascuno nel proprio settore per la costruzione della fortezza.  Vi erano minatori, fabbri, muratori, perfino un sarto ed un barbiere. Ricordo di una famiglia composta da padre, due
figli giovanotti e con loro anche la madre. Questa famiglia era lombarda. La madre, naturalmente seguiva i familiari a scopo di risparmio perché era lei stessa a provvedere ai pasti ed alle altre necessità  di cui essi avevano bisogno. Questa maestosa donna attivava e lavoratrice instancabili, nelle ore di riposo, sferruzzava continuamente calze e maglie per i suoi tre uomini. I miei genitori gestivano questa casa - albergo  e ristorante ed ospitarono molte persone, circa una cinquantina. Gli altri quattrocentocinquanta furono alloggiati presso famiglie che, restringendosi un po' nelle loro povere case, poterono assolvere l'impegno non disdegnando invero il modesto compenso che ne traevano e qualche piacevole idillio tra i giovani. Quei giovani biondissimi friulani piacevano molto alla gente del posto sia per la loro cortesia che per il benessere finanziario che avevano portato. L'impresa impegnata per la costruzione della fortezza era anch'essa friulana ed era molto organizzata. In sostituzione delle abitazioni mancanti, per alloggiare tutti i lavoratori, furono costruite nella pineta diverse baracche in legno arredate alla meno peggio con brande pieghevoli  in legno e tela di juta. Trascorsero i due anni della costruzione del forte ed i miei genitori in tutto questo tempo furono impegnatissimi da mane a sera.
Mario, Irma ed io cercavamo di dare una mano nei lavori in cui le nostre forze ci permettevano, ma erano aiuti limitati per la nostra giovane età.
Mario era più grandicello e cominciava a dedicarsi in aiuti più positivi e consistenti: Irma ed io ci dedicavamo specialmente alla cura dei tre fratellini più piccoli: Ines di otto anni, Araldo quattro e Rosetta due.  Eravamo nel Maggio 1915, la guerra contro l'Austria Ungheria divampava paurosamente. Molti uomini furono chiamati alle armi, la fortezza di Costa Rossa era quasi ultimata e nel breve periodo di qualche mese il paese rimase nuovamente semideserto. Durante il lavoro per la costruzione della fortezza Mario fu valido aiuto per i miei genitori; aveva sedici anni, era forte e pieno dl volontà di lavorare. Vi erano anche due donne che aiutavano la mamma nel disbrigo dei lavori di cucina, delle camere da letto e della lavanderia. Mario e mio padre si dedicavano all'imbottigliamento del vino nella cantina ed alla sala da pranzo. I conti erano fatti sempre da Mario che sapeva tenere i libri con molta precisione e scrupolosità, non disdegnando le alzate mattutine alle ore sei, né il lavoro che richiedeva attività e prontezza.
Alle prime luci dell'alba la preparazione del caffè e del caffelatte, i panini imbottiti di salsiccia o di formaggio. Fra questi operai coi muscoli di acciaio e lo stomaco di struzzo vi erano uomini che anziché la tradizionale tazza di caffè o caffelatte mattutino tracannavano bicchieri di grappa o di cognac. Il primato dei bevitori di liquore spettava certamente ad una comitiva di bresciani.
G1i ospiti delle baracche si nutrivano con molta polenta e formaggi piccanti come il pecorino, il sardo, il gorgonzola ed il provolone annaffiati con l'ottimo vino che mio padre aveva preparato personalmente con le uve mature dei suoi vigneti. Questi uomini lontani per lavoro dalle loro famiglie e dai loro affetti, si riunivano alla sera in gruppi per cantare le loro vecchie canzoni regionali nostalgiche ed appassionate, sorseggiando i1 profumato e limpidissimo vino del posto.
Si avvicinava l'estate ed i miei genitori ci mandarono al mare con la nonna Teresa. Il soggiorno marino avrebbe contribuito a rinforzare il nostro organismo, ma avrebbe anche dato un aiuto alla mamma che doveva accudire i tre piccoli oltre a tutto il lavoro dell'albergo. Partimmo dalla Spezia col treno ed andammo a Monterosso, uno dei paesi delle Cinque Terre che produce il rinomato vino chiamato,  "Sciacchetrà". La nonna non andava in spiaggia, non aveva mai fatto bagni in mare, rimaneva in casa per la preparazione dei pasti e per rifare i letti. Irma ed io eravamo le mammine dei tre fratellini minori che erano vivacissimi ed incoscienti, per la loro giovanissima età. Proprio qualche giorno prima della partenza dal soggiorno marino, Araldo e Rosetta rischiarono di annegare, e se non fosse intervenuto prontamente un uomo del posto, esperto nuotatore, la cosa si sarebbe conclusa tragicamente. La nonna era tanto paziente con noi, spesso sospirava e ci raccomandava ogni giorno di badare ai piccoli.
Un giorno rientrando dalla spiaggia la trovammo in conversazione con lo zio Lorenzo; era l'ultimo dei suoi cinque figli ed era stato richiamato alle armi. Era venuto a salutare la sua mamma allora settantacinquenne per timore di non vederla mai più. Ella era vecchia e lui andava in guerra. Ambedue di fronte ad ostacoli anche molto diversi ma che avrebbero potuto segnare la fine della loro esistenza. Lo zio lasciava quattro figli e la giovane moglie e volle raccomandare tutti alla vecchia madre in caso di sua morte. La madre lo rassicurò con le lacrime agli occhi  di proteggere la famigliola in qualunque evenienza e, mentre gli gettava le braccia al collo, lo incoraggiò con parole care e dolci che solo una madre sa dire in questa situazione.
Isacco era il primogenito dello zio Lorenzo, poi Gina e Anselmo; l'ultimo, il piccolo di pochi mesi. Agostino.  Quella visita gettò la nonna in una prostrazione tale che noi, benché vivaci e turbolenti, sentimmo per qualche giorno lo stimolo ad essere più tranquilli, più buoni, più ubbidienti. Ogni sera recitavamo con lei il santo rosario implorando il ritorno dello zio Lorenzo e la protezione della beata Vergine su tutti i combattenti. Alla fine dell'estate, quando rientrammo a Campiglia, tutto era cambiato.
Il paese era ritornato al suo aspetto di qualche anno prima quando gli abitanti erano pochi perché ora tutti gli uomini giovani e meno giovani erano stati richiamati alle armi; e inquadrati nei vari reggimenti per raggiungere la frontiera ove infuriavano i combattimenti. In quei tempi la radio non esisteva e neppure la televisione. Eravamo nel 1916 e per poter conoscere le varie situazioni delle nostre truppe, dei nostri congiunti e dei nostri connazionali veneti (poiché furono loro specialmente che dovettero subire i disagi e le violenze dell' invasione tedesca) bisognava attendere il bollettino di guerra.
Il bollettino veniva trasmesso una sola volta nelle ventiquattro ore ed in quell'attesa ansiosa la gente correva alle agenzie giornalistiche per leggere sui quotidiani le notizie. Quando il bollettino annunciò la caduta di Caporetto anche lo zio Lorenzo fu fatto prigioniero dai tedeschi. Le persone che si precipitavano alle agenzie per conoscere il contenuto del bollettino di guerra appartenevano a tutti i ceti. Si vedevano operai indossare ancora la tuta da lavoro, donne con i bimbi in braccio, contadine scalze e vestite miseramente. Ciascuna di queste persone aveva abbandonato in fretta il posto di lavoro per poter conoscere le notizie.
Quante persone ho viste prorompere in singhiozzi per la caduta di Caporetto! Confesso la mia debolezza, anch'io ho pianto e sofferto, nell'apprendere la notizia. Il professore Edoardo Vercelli, preside della scuola normale, ci riunì nella palestra scolastica e tenne una conferenza che non dimenticherò mai. Ci esortò ad avere coraggio, a reagire al comune dolore ad aiutare i nostri connazionali profughi dal Veneto, a credere nella forza e nell'eroismo dei nostri soldati che avrebbero saputo cimentarsi per riconquistare quel pezzo di territorio italiano, costato sangue e morte di tante giovani vite. Le nostre forze armate, dei vari settori, reagirono coraggiosamente riuscendo a ricacciare il nemico al di là del Piave. La marina si coprì di gloria con la "beffa" di Buccari alla quale parteciparono gli ufficiali ed i marinai con lo stesso impegno e lo stesso ideale. Gli ufficiali che guidarono l'assalto furono Ciano, Rizzo, e molti valorosi sottufficiali . 
Il poeta Gabriele D'Annunzio  che in quel tempo ricopriva il grado di maggiore dell'aviazione, vi prese lui pure parte attiva con la beffa di Buccari. In che consiste la beffa di Buccari ? Si chiamò appunto beffa perché le nostre forze armate della marina riuscirono a violare la frontiera nemica per mezzo di piccoli ma potenti motoscafi denominati MAS dalle iniziali che il poeta aveva voluto attribuire a questa brillante operazione   "Memento Audere Semper "  dal significato latino.  Gabriele D'Annunzio volò su Vienna gettando volantini che inneggiavano al trionfo degli italiani e alla beffa che era stata fatta al nemico.   Rieccheggiarono le note dell'inno al Piave ma ora non più dicendo  "ritorna lo straniero!" , ma "va indietro lo straniero !" che riempì di gioia gli animi di tutti gli italiani.  Ora il paese era ritornato alla normalità, però mancavano gli uomini giovani per il lavoro della campagna. Anche mio padre si trovava a disagio, ma con un po' di aiuto dei più anziani e Mario riusciva a coltivare i vigneti. Mario non sentiva però  molto attaccamento al lavoro contadino e, benché facesse tesoro delle preziose nozioni che il babbo gli impartiva, aveva l'ideale dei viaggi. Aveva letto tanti romanzi di avventure e giornali e sentiva il bisogno di evadere. La navigazione ed il mare lo attiravano.
Il romanzo dei reali di Francia di cui conosceva a memoria tutti i nomi dei personaggi, ed i romanzi di Salgari avevano destato nel suo animo il senso dell'avventura.
Ogni giovane adolescente nasconde nel suo intimo dei sogni che culla e vorrebbe realizzare; vede tutto facile e bello, pensa a tutto questo suo mondo che sogna e vorrebbe raggiungere ma non lo vuole esprimere a nessuno. Conserva gelosamente il suo segreto ed ha paura che chi lo circonda possa carpirglielo. E' tanto promettente al suo pensiero, ma troppo lontano, astratto, informe. Mario volle tentare il primo gradino delle sue aspirazioni e con il permesso dei genitori, prese imbarco come mozzo su un piroscafo da carico che si trovava nel porto di Napoli e compiva viaggi brevi nei porti del Mediterraneo. Il  nome del piroscafo era Carlo Bruno. Rimase imbarcato pochi mesi quando gli arrivò la cartolina precetto dal distretto per la chiamata alle armi. Chiamata alle armi a diciotto anni di età ed arruolato in un reggimento di fanteria. Pochi mesi di istruzione militare senza la consueta pronuncia del giuramento che ogni militare deve espletare quando indossa la divisa. Fu avviato in tutta fretta al fronte ove si combatteva accanitamente. La prima tappa sul Carso, monte S. Giulia, monte Sabotino ed in altre località limitrofe di cui mi sfuggono il nomi. Prima della partenza da casa, in un giorno della fine di gennaio, Mario compì un atto altamente umanitario per la nostra mamma. Doveva nascere la nostra ultima la sorellina. La mamma fu presa dalle doglie del parto mentre fuori infuriava una paurosa tempesta di pioggia e vento che a stento si poteva circolare per le vie del paese. In questo minuscolo paese non risiedevano (come non risiedono neanche oggi) il medico nè l'ostetrica e l'unica persona che si prestava in questi casi (solo a titolo di favore) era una vecchia contadina analfabeta. Abitava in una località poco lontana dalla nostra casa, ma a causa del temporale in quel momento rimaneva isolata per l'allagamento di una via presso una linea di displuvio che non le avrebbe permesso il passaggio, perché livello dell'acqua in quell'istante raggiungeva il ginocchio. Mario, malgrado i suoi appena diciotto anni, era già un uomo forte, alto di statura e coraggioso. Non volle che il babbo si avventurasse in quell'inferno di lampi e tuoni ed andò di persona a prendere sulle spalle la vecchia Caterina che aiutava tutte le donne del paese a compiere quell'atto meraviglioso della entrata nella vita.  La buona nonna Teresa che era sempre stata presente alle altre nascite prestando il suo aiuto importante e positivo, ora non era più.
Era morta in un giorno caldo, afoso nell'Agosto dell'anno precedente. La notizia che il suo figliolo Lorenzo era prigioniero degli austriaci, l'aveva uccisa. L'ultima nata fu chiamata con i nomi delle due nonne, come volle il babbo: Teresa Maria.
Quella piccola creatura fu accolta con tanta gioia dai miei genitori e da noi tutti. Eravamo felici di quei bei sorrisetti su di noi. Mia madre era di natura forte, sana, coraggiosa, buona e sincera e benché quando partorì l'ultima bambina avesse quarantadue anni, si riprese abbastanza presto ed allattò pure Teresa Maria come aveva allattati gli altri sei figli. Teresa Maria cresceva sana e normale, vezzeggiata da tutti.
Mio padre aveva un carattere molto diverso da quello di mia madre. Buono, religiosissimo convinto e praticante, forte e sano, lavoratore instancabile; ma soggetto a smarrirsi se avesse dovuto affrontare contestazioni legali da dover far riconoscere i suoi diritti di fronte a chi avesse osato offenderlo od ostacolarlo nelle cose giuste e sincere. Mio padre era un timido come suol dirsi ora. Spesso ci prendeva in braccio e giocava con noi quando eravamo piccoli.
Irma ed io sedevamo sulle sue ginocchia e volevamo sempre ascoltare la favola della lumaca e del millepiedi per poter
dare il nostro parere.  Mia madre sapeva affrontare senza esitazione qualunque ostacolo le si fosse presentato trovando sempre il bandolo della matassa per risolvere il problema. "Non dimenticare che c'e la legge, Costantino" gli diceva "ed io riuscirò a reclamare fino a chiarire ogni cosa! Inoltre bisogna aver fede, Iddio non ci abbandonerà mai. Tu vai sempre alle funzioni religiose perché credi in Dio e Dio ci aiuterà. Non dobbiamo abbatterci, ma credere e vivere per allevare i nostri figli!". Il nome di mia madre era Cesira e credo che tutte le persone di Campiglia nate quando ella era ancora giovane e forte siano state raccolte dalle sue mani al momento del parto. La vecchia Caterina era morta ma la buona Cesira correva prontamente, anche se chiamata nel cuore della notte, al capezzale delle partorienti. A volte si era coricata stanchissima, dopo una lunga giornata di lavoro spesa ad accudire la numerosa famiglia, ma il richiamo di chi soffriva, la faceva correre per portare il suo aiuto. Era intelligente, altruista, piena di iniziative. La nostra era una famiglia felice; la piccolina cresceva come un fiore, anche se la guerra era per noi una continua preoccupazione. Mario non dava più notizie di sè da varie settimane, mentre dai bollettini di guerra venivamo informati dei sanguinosi combattimenti. Temevamo continuamente che Mario fosse caduto nell'ultimo scontro.
Giunse finalmente una lettera di poche righe: "Sto bene sono ferito ad un braccio, mi trovo all' Ospedale Contumaciale di Udine!". Benché quella lettera portasse una notizia di dolore, aveva ridato a tutti noi la gioia di sapere che Mario era in vita. Una pallottola di mitragliatrice gli aveva trapassato il braccio destro per cui non aveva potuto scrivere di suo pugno. Un suo compagno d'armi l'aveva scritta imitando molto approssimativamente i caratteri, ma osservando molto attentamente le varie lettere ci accorgemmo dell'inganno. Dopo qualche settimana Mario fu trasferito all'Ospedale militare di Saluzzo e mia madre, spinta da quel grande e misterioso amore che trattiene sempre il figlio unito alla madre anche se il cordone ombelicale era stato reciso da molti anni, coese immediatamente all'ospedale di Saluzzo per abbracciare il figlio, fortunatamente scampato.
Teresa Maria aveva solo sei mesi di vita, era poppante, così andò lei pure incontro al fratello che non aveva mai visto. In quella silenziosa corsia di ospedale ove erano i giovani combattenti, reduci dal terribile massacro, portò una nota piacevole di vita familiare e tanta tenerezza.
Qualche settimana più tardi Mario fu trasferito all'ospedale militare militare di La Spezia e gradatamente si riprese. Era tanto dimagrito, pallido per la grande emorragia subita, ma la vicinanza ai suoi più cari affetti familiari contribuirono a farlo migliorare rapidamente.
Il braccio era rigido e dolente, ma le assidue cure mediche, l'alimentazione nutriente, le cure dei fanghi coadiuvate dalla forza della sua tenera età riuscirono a riportarlo in salute.
La guerra continuava ed ai disagi del conflitto si aggiunsero quelli della terribile epidemia che scoppiò nella primavera del 1918.
La "spagnola". La spagnola fece tante vittime perché in quei tempi la farmacopea non aveva ancora scoperti  i sulfamidici, né gli antibiotici. Gli ammalati di spagnola erano colpiti da infezione polmonare e febbre altissima  che si curava con salassi o sanguisughe applicandole sul dorso e sul petto dei malati, e con cataplasmi caldissimi di farina di semi di lino.
La spagnola bussò alle porte di casa mia e colpì mia madre, gettando tutta la famiglia nei disagi e nella preoccupazione. Mio padre, per natura pauroso del male ed apprensivo; Mario ancora lontano da casa perché militare, Irma ed io adolescenti e con poca esperienza per la guida della casa e per l'allevamento dei bambini piccoli, dovemmo adoprarci per risolvere il difficile problema.
Il babbo correva ogni giorno a La Spezia alla ricerca di un medico e di medicinali che in quei momenti scarseggiavano, Irma ed io vegliavamo a turno la mamma febbricitante e sfinita, senza poter fare nulla per lei che ci facesse sperare nella guarigione. Da più di venti giorni avevamo lasciato la frequenza della scuola. Io frequentavo le complementari (ora chiamate medie) ed Irma le normali (ora chiamate magistrali). La piccolina già bene avviata dalla mamma a saper chiedere per i suoi bisogni intimi era trascurata da noi in ogni sua esigenza causa la nostra poca pratica ad allevar bambini e la grande stanchezza delle veglie. Teresa Maria sentiva la mancanza della mamma più di ogni altro familiare piangeva tanto e chiamava mamma in continuazione rincantucciata sotto la panca di cucina.
Il medico curante ci aveva consigliate a non lasciare avvicinare l'ammalata dai piccoli, ma specialmente dalla più piccina perché il male era contagioso. A Campiglia non vi erano infermiere, perciò noi dovemmo imparare a curare l'ammalata e fu così che Irma imparò a fare le iniezioni. Erano iniezioni di olio canforato per il sostenimento del cuore. Il babbo era preoccupato e l'ammalata non migliorava. La febbre era stazionaria: oscillava dai 39º ai 40º. Il medico si rifiutava di praticare il salasso a mia madre. Diceva che era troppo magra e indebolita e non poteva assumersi la responsabilità. Mia madre, sempre coraggiosa in qualsiasi momento difficile, seppe dar prova anche in quella circostanza della sua forza d'animo. Affrontò il medico con il solito cipiglio risoluto, ed assumendosi ogni responsabilità, lo scongiurò di farle il salasso. Insistette in nome di Dio e dei suoi sette figli che avevano bisogno di lei. Fu eseguito il salasso al braccio e le furono applicate alla schiena ed al torace dodici sanguisughe che succhiarono prontamente il sangue infetto liberandola immediatamente dal forte male di capo e dalla febbre.
Se fosse stata ritardata questa operazione, mia madre sarebbe morta sicuramente e lo dimostrarono le sanguisughe con la loro morte istantanea per il sangue infetto che avevano succhiato. A questo improvviso miglioramento il medico si meravigliò e disse: "Signora, lei può ringraziare la sua forte fibra se riuscirà a superare la spagnola  perché la quantità di sangue che le ho estratto avrebbe potuto compromettere la sua vita se non fosse stata robusta ed io le confesso chiaramente che ero restio a compiere l'operazione, poiché molte donne che curo in città sono anemiche e non sopravvivrebbero al salasso. Malgrado la sua magrezza, lei è molto sanguigna, robusta di cuore e di nervi e ….con tanto coraggio!  Le faccio i miei auguri che possa vivere per tanti anni vicino ai suoi figli!".
Superati questi terribili momenti ricominciammo a vivere un po' più tranquilli e con un andazzo quasi normale. La mamma si riprendeva lentamente, ma la debolezza causata dalla malattia, la costringeva ancora ad una vita di riposo e ad una regolarità nei pasti cui io ed Irma non riuscivamo mai ad espletare prontamente per i troppi impegni che la direzione della casa ci procurava. Dovevamo badare al ristorante con relativa cucina, ai bimbi, alla casa, al bucato settimanale, ai polli, ai conigli, alle cinque pecore che erano nella stalla, ai due maiali e, perfino fare il pane ogni quattro giorni.
Il babbo si occupava molto della stalla, ma aveva anche la campagna da far coltivare. Bisognava indirizzare e sorvegliare le persone che lavoravano a giornata alle sue dipendenze. Mario era rimasto a La Spezia in forza al 21º reggimento fanteria come telefonista e precisamente nella stessa caserma che, per ragioni di spazio e di avvenimenti, nel periodo bellico era stata adibita ad ospedale. Quasi ogni giorno, col permesso dei suoi superiori, correva a Campiglia per vedere la mamma, quando era tanto ammalata e dopo, durante la convalescenza, per confortarla e darle quella forza morale che è un vero balsamo per chi soffre.
Finalmente pareva che la guerra volgesse al termine; i bollettini annunciavano l'imminente ritirata del nemico. Irma ed io potemmo riprendere la scuola negli ultimi mesi dell'anno scolastico. Tutte le preoccupazioni per la malattia della mamma, le lunghe veglie notturne al suo capezzale, le cure ai quattro fratellini, la presenza al banco del negozio ed alla cucina ci avevano maturate anzitempo. Le nostre coetanee avevano meno impegni di noi; alla domenica andavamo a spesso in pineta raggruppate in comitive cantando le belle canzoni di allora. Spesso con l'aiuto dei giovani  appendevano a due piante una robusta fune di canapa, passavano ore ed ore a vo1teggiare sull'altalena. Altre volte andavamo a ballare e godevamo di quella spensieratezza che è naturale e necessario alimento dei giovani.
Per noi la gioia era di vedere la mamma guarita ed in più avevamo lo studio. Diverse persone del paese erano decedute per la spagnola, e  intere famiglie numerose, erano trattenute a letto per la febbre che le annientava.  Succedeva che il malato che aveva meno febbre, e che si era coricato per primo, dovesse alzarsi per poter prestare le cure agli altri. Non si potrebbe proprio dire cure, ma per preparare i pasti, per accendere il fuoco, per attingere acqua dalla cisterna o dal pozzo. La mia famiglia finalmente riacquistò il suo equilibrio di vita. Il nostro eroe era ritornato a casa vicino a noi, a tutti noi, e la mamma ora era felice di riaverci tutti intorno. Trascorsero gli inverni, le estati, le primavere; ritornava il settembre che riempiva i tini di uve e di mosto. Mario aiutava molto il babbo nella coltivazione dei vigneti.
Anche il piccolo uliveto veniva diserbato e potato da Mario con tanto impegno e tanta passione. Il piccolo  "pozzone" situato davanti alla casa, quel brutto ritaglio di terra di qualche anno prima, fu trasformato in un orto redditizio e in un ridente giardino. Mario aiutava il babbo a sradicare le vecchie piante, a costruire dei piccoli muri di sostegno perché a Campiglia la terra è in notevole pendenza. Era una brutta pietraia il pozzone cui non si sarebbe attribuito valore alcuno.  Piccolo,  dirupato, incolto ed alla mercé di chi passando avesse voluto gettare oggetti che non gli servivano più. Nel pozzone si potevano vedere cocci di piatti e di bicchieri, bottiglie e fiaschi rotti.
Gli abitanti delle case vicine vi gettavano perfino secchi di acqua sporca perché in quei tempi lassù non esistevano le fognature. I rifiuti dei pozzi neri venivano utilizzati per la concimazione degli orti. Quanti ciocchi di quercia e di pini diede il pozzone! Per diversi inverni il caminetto del ristorante fu riscaldato da loro. Quel fuoco che durava notte e giorno, senza fiamma nè scintille, ma con la bragia nascosta sotto cenere caldissima bruciava lentamente mandando il suo tepore in tutto l'ambiente. I ciocchi di pino bruciando profumavano l'aria di incenso e quelli delle olive di olio. Io mi sedevo spesso davanti a quel caminetto, appoggiavo i piedi calzati da zoccoli di legno a mò di ciabatte alla pietra di base, e quello era il mio posto preferito quando dovevo studiare le lezioni. Il caminetto di cui parlo non era affatto costruito con marmi, od ornamenti classici di valore. Erano in cemento i due pilastrini laterali, di pietra grigia la base ed il frontespizio orizzontale superiore di pietra grigia scalpellinata a piccoli sbalzi che volevano dargli un modesto ornamento.
Mario in quelle interminabili giornate invernali passava qualche ora a giocare a carte con un vecchio del paese che chiamavano curato.  Non era affatto un prete costui, anzi era un povero analfabeta, ma i paesani gli avevano attribuito questo appellativo perché un suo antenato aveva studiato per qualche anno in seminario, abbandonando poi gli studi religiosi per prendere moglie. Il suo nome di battesimo era Francesco, e se qualcuno lo chiamava col nomignolo si adirava difendendosi anche col bastoncino che lo aiutava a camminare in quanto era sofferente di reumatismi alle gambe. Curato aveva partecipato alla presa di Porta Pia e di ciò era molto fiero. Si sentiva un grande eroe. Spesso i ragazzi del paese lo accerchiavano e volevano che raccontasse come si era svolto il fatto. Sapevano gia tutto a memoria dato che Francesco l'aveva raccontato tante volte, ma ti divertiva il modo con cui il vecchio sapeva rievocare con impeto e fierezza i vari atteggiamenti di quei personaggi.   
Francesco aveva trascorso la sua vita a Campiglia, lavorando come contadino a giornata da chi lo richiedeva. Era invecchiato solo senza affetti, non aveva mai preso moglie ed una sua anziana nipote pensava a rassettare la sua modesta abitazione. In quei tempi le famiglie dei piccoli centri vivevano unite, legate fra loro da quel senso comune di reciproco aiuto e rispetto come se avessero avuti vincoli di parentela. Francesco era anche aiutato finanziariamente dalle varie famiglie. Ora che la vecchiaia gli impediva di lavorare in campagna, si adoprava in lavori meno faticosi e semplici. Ad esempio nella mondatura delle ginestre per legare, in primavera, i tralci delle viti nella cardatura manuale della lana o nella potatura delle viti in vicinanza del paese ove poteva recarsi senza camminare molto. Questi lavori richiedevano tempo e non erano faticosi, perciò erano riservati al buono curato al quale procuravano il piatto di minestra calda, evitandog1i così di subire l'umiliazione per l'offerta ricevuta. Nei giorni di festa indossava una giacca di foggia militare  molto lisa e logora, ed il suo vecchio cappello piumato da bersagliere che aveva conservato con vero orgoglio.
Il 25 Novembre ricorre la festa di S. Caterina patrona della parrocchia di Campiglia, ma i veri festeggiamenti a questa santa avvengono la prima domenica di Agosto di ogni anno. La leggenda vuole che, in tempi lontani,  per intercessione di S. Caterina cessasse un flagello di grandine che rovinava il raccolto. Come ringraziamento si ce1ebra ogni anno la festività con grande partecipazione di tutti. Allora il paese veniva addobbato a festa per onorare fa santa che era portata in processione con canti di devozione. Le ragazze rinnovavano i1 loro abito da festa proprio in quella occasione. La sera nella piazza illuminata a giorno i giovani sparavano i mortaretti aumentando l'allegria della mo1titudine festosa.
La luce elettrica fu messa nel 1913 e prima di allora la piazza veniva illuminata con lampioni a petrolio, o lampade ad olio. Da La Spezia venivano pasticcieri ambulanti che vendevano caramelle, ciambelline dolci colorate, coperte di confettini bianchi. In quella occasione i fedeli portavano alla santa grossi ceri perché dicevano che quel giorno era dedicato alla richiesta delle grazie. Quanta semplicità in quegli animi!
Mio padre aveva un bosco piantato a querce, corbezzoli, pini, e molti castagni che in autunno davano abbondanti frutti. Le querce da ghiande fornivano la maggior parte dell'alimento per i maiali . Durante l'autunno, mio padre, aiutato da Mario tagliava piante di castagno che nella primavera successiva sarebbero servite per costruire i filari nuovi delle viti nelle vicinanze della casa: venivano eliminati i succhioni delle piante ed i polloni che restando avrebbero danneggiato la pianta madre. L'epoca del taglio era regolata da leggi che anche oggi credo siano in vigore. Si potevano tagliare le piante solo in autunno, epoca in cui sono a riposo. Le viti vicine alla casa furono sistemate con tanta razionalità e precisione che destarono l'ammirazione dei passanti. Tutti i pali in legno portati dal bosco, furono privati della corteccia e lasciati disseccare all'aria e al sole; poi conficcati nei poggi dentro a buche profonde scavate nella terra. Quei pali bianchi e robusti formavano il canovaccio del lavoro che si doveva fare per preparare l'appoggio ai tralci ed ai grappoli. I pali legati l'un l'altro con robusto filo di ferro erano tenuti fermi, incrollabili alla pioggia ed al vento. Nei muriccioli a secco costruiti nel pozzone, Mario piantò rami di fico, cespugli di rosmarino e piante di capperi che per la conformazione ramificata delle loro radici contribuivano a tenere fermo il terreno. Le piante di fichi  diedero frutti ottimi e la terra coltivata e concimata con cura gli ortaggi più vari. Il luogo, essendo esposto al sole, era quello che meglio si prestava a tali colture. Ricordo con quanta gioia mio padre raccoglieva  le primizie del pozzone: le patatine novelle, i carciofi, i cavolfiori, le fave, ravanelli tondi e rossi, sedani e cardi  ed, in piena estate, l'insalata più tenera ed i pomodori sodi e sugosi con abbondanza di basilico e prezzemolo. Perfino i fiori dava il pozzone! I fiori li avevo piantati io e li curavo con molto impegno. Azzurri giaggioli, dalie grandi, rose gialle e rosse, violacciocche, garofanini piccoli profumatissimi ed un cespuglio di lavanda. Nel tratto più alto del pozzone Mario costruì un gioco da bocce.
Gli costò tanta fatica quel lavoro perché dovette portarvi molta terra e livellarla. Da un lato il gioco era protetto dal muraglione di sostegno della piazza, ma, dall'altro lato e nelle due testate fu necessario proteggerlo con rete metallica poiché confinava con la via che conduceva ai vigneti. Per essa passavano molte persone e la caduta di qualche boccia avrebbe potuto ferire o anche uccidere qualcuno. Le bocce erano diventate uno svago piacevole per i giovani e meno giovani del paese, perché in quei tempi non esisteva la comunicazione  con la città come esiste ora.

L'unica via che conduceva a La Spezia era una mulattiera lunga alcuni chilometri e assai faticosa, mentre la nuova strada carrozzabile che era stata costruita col Forte di Costa Rossa era riservata solo ai militari. Scarseggiava anche il denaro allora, e pochi avrebbero potuto spendere le due lire che occorrevano per assistere ad una proiezione cinematografica in città.
Inoltre vi erano da spendere anche i 40 centesimi del tram elettrico che dall'Acquasanta portava i passeggeri a La Spezia. Questa piccola borgata si trova ai piedi della strada mulattiera. Mario aveva anche diversi amici suoi coetanei a Campiglia coi quali sapeva farsi buona compagnia per il suo carattere molto comunicativo e buono.
Giocava a bocce alla domenica con Guglielmo, che lui chiamava Gulé con il cugino Isacco. Gulé era spesso in discussione con Mario. "Tu mi vinci" gli diceva "perché fai il passo troppo lungo quando lanci la boccia, non fare il furbo!". Guglielmo era operaio in arsenale, era un giovane taciturno con un portamento compassato e molto ordinato nella persona. La sua capigliatura corvina con le onde naturali, sempre accuratamente pettinate, gli dava un'impronta distinta. Il cugino Isacco, chiassoso e ridanciano, riusciva a battere Mario. Isacco era un bel giovane biondo con  il corpo  atletico e occhi azzurri che faceva innamorare di  sé le ragazze.
Durante il servizio militare nella marina aveva imparato un mestiere che si mise ad esercitare anche da borghese dopo l'espletamento degli obblighi di leva. I misteri della vita del mare lo avevano entusiasmato ed era diventato un intrepido palombaro. Raccontava tante cose interessanti sui pesci e la loro vita. Ad esempio di grandi polipi con tentacoli lunghi parecchi metri e con ventose larghe come una mano che gli si avvinghiavano allo scafandro metallico. Spesso per liberarsene era necessario usare la piccozza e tagliare i tentacoli. Le persone allora vivevano felici anche se finanziariamente non avevano molte disponibilità. Parecchi uomini lavoravano in arsenale come disegnatori, fabbri, tornitori e con altre mansioni anche se la loro paga era molto modesta. I meglio pagati avevano uno stipendio di 500 o 600 lire mensili, e i meno raggiungevano a malapena le 200 o 250. Altri andavano a lavorare a giornata la campagna e le donne, quelle meno rustiche, a servizio in città presso qualche famiglia benestante che le pagava con otto o dieci lire al mese più il vitto. A Natale o a Pasqua il dono di qualche abito non più nuovo che poteva servire a loro o a qualcuno della loro famiglia.
Anche in queste condizioni di miseria e di privazione i giovani di allora sapevano apprezzare il lato bello della vita sfruttando quel naturale e gratuito dono di forze e di gioia che la vita offre a tutti i suoi figli. Il I Maggio, inizio del mese che veste di colori i prati e
 boschi e fa risuonare tutta l'immensità della natura di canti e di imenei armoniosi, mette negli animi umani allegria e spensieratezza. Quella spensieratezza che è privilegio dei giovani, forza e pungolo ad ogni impresa, anche la più rischiosa e faticosa. In questa festa del primo Maggio, però non vi era ne rischio ne pericolo, solo l'espressione di forza e di allegria.
Veniva allestito sulla piazza del paese "l'albero della cuccagna", chiamato così perché alla sua sommità veniva collocato un grosso pacco contenente dolciumi, formaggi pecorini fatti dalle donne del posto, salumi, ed anche qualche moneta che veniva raccolta durante la questua fatta con canti presso le varie famiglie del paese. Ogni famiglia regalava qualcosa perché rappresentava il preludio di una giornata di allegria e spensieratezza per tutti, specialmente per i giovani. La festa iniziava col ballo ed i bimbi irrequieti ed intraprendenti si rincorrevano intorno all'albero fingendo anch'essi di salire il palo. Era difficile riuscire a toccare il pacco dell'albero poiché questi aveva la superficie liscia e per di più unta di olio. Il difficile cimento durava anche qualche ora molti provavano ma i più dopo tre o quattro metri di salita scendevano esausti. Come ora i tifosi di partite di calcio gridano forza pronunciando il nome della squadra del loro cuore, allora gli spettatori gridavano forza al nome dello scalatore dell'albero.
Anche il carnevale rappresentava una tappa allegra e spensierata per i giovani. In una sala preparata apposta per la rottura della pentolaccia di terracotta, si svolgeva la festa. Le ragazze del paese preparavano larghe strisce di carta colorata con le quali costruivano una graziosa catena che disponevano in tutta la sala. Queste variopinte catene di carta partivano unite dal centro del soffitto della sala e arrivavano a diagonale alle pareti del locale con una discesa morbida, un po' cascante da formare un vivace pergolato di colori.
La sera della rottura della pentolaccia, per i giovani, rappresentava la festa più bella. Le ragazze del paese sapevano vestirsi per  l'occasione con le camicette più belle, le scarpe a tacco alto e le calze di seta. Fra queste ballerine se ne potevano notare alcune veramente avvenenti che con la loro esuberante e rustica bellezza sarebbero state degne di posare per il pennello di Raffaello. La bella Fanny con gli occhi nerissimi come perle, aveva capelli neri ebano ed il colorito marcato del suo viso abbronzato dal sole. Lo sguardo penetrante, un sorriso dolcissimo e le due bianche file di denti sani e regolari la facevano sembrare un personaggio da favola.
Il contrasto della camicetta di seta verde bandiera col suo viso abbronzato le davano un'impronta esotica. Portava i capelli lisci spartiti sulla fronte, raccolti dietro la nuca ed intrecciati. Osservandola in tutti i suoi particolari vedevo in lei la bellezza delle donne orientali. Il direttore del ballo era Mario che sapeva destreggiarsi molto bene nel comandare la quadriglia, il cotillon, il ballo dello specchio e della scopa.
Era un giovane di temperamento gioviale, allegro, simpatico a tutti e specialmente alle ragazze che con molta raffinatezza, cercavano di fargli la corte. Egli era alto, aveva gli occhi verdi, dolci, i capelli neri ed ondulati naturalmente, pettinati all'indietro come allora si diceva «alla Mascagni», dalla pettinatura adottata dal grande musicista. Avevo diverse amiche d'infanzia a Campiglia, ma Gelsomina era la mia più cara amica. Avevamo frequentato tutte le scuole elementari, complementari ed i primi anni delle normali sempre insieme nella medesima scuola ed anche vicine di banco.
In quei tempi non si facevano i compiti di gruppo, come si fanno oggi nelle scuole, ma noi ci riunivano ugualmente, studiavamo insieme e facevamo insieme le prime traduzioni di latino. Facevamo progetti per l'avvenire, sempre colorati di rosa s'intende, perché i giovani hanno la prerogativa di sentirsi in un mondo ove tutto debba avverarsi secondo i propri desideri. Ci volevamo bene, ma l'ultimo anno delle normali ella si ammalò di bronchite e per diversi mesi non potè frequentare la scuola. La bronchite degenerò in polmonite, poi in tisi che la condusse alla morte.
Era bella e buona Gelsomina, e, alla sua nascita, era rimasta senza mamma, perdendo così le tenerezze che ogni bambino dovrebbe poter assaporare.
Era la tredicesima figlia di una madre appena trentenne. I sopravvissuti di quella numerosa famiglia furono tre. Lei, un fratello ed un'altra sorella. I primi nati. I capelli di un biondo fieno, lisci, raccolti in una lunga treccia e fermati dietro la nuca le davano un tono signorile e distinto per il suo bianco incarnato e la statura snella. Aveva grandi occhi color nocciola scuro che sapevano esprimere gioia, terrore, dolore, sgomento o allegria nel loro segreto modo di muoversi. Quegli occhi non li potrò mai dimenticare! Oggi la tisi si cura e molte persone possono essere salvate da questo male. Nel 1925 il bacillo di Koch faceva vere e proprie stragi. Le persone ammalate di tisi si limitavano a soggiornare il più a lungo possibile nelle pinete. Chi non possedeva i mezzi per trasferirsi in questi soggiorni, doveva rassegnarsi e spegnersi lentamente.


A Campiglia vi era, e vi è ancora, una meravigliosa pineta che diede alla cara Gelsomina molto sollievo al suo affannoso respiro, ma la tosse le sconquassò il petto e dovette soccombere. Olga, l'amica sartina, sempre allegra, gentile e di buon umore, aveva il padre falegname. Era l'unico falegname a Campiglia ed anche un bravo artigiano per la costruzione di mobili classici, rinascimentali e barocchi. Questo bravo artigiano doveva anche costruire le bare dei vari paesani che ogni tanto erano falciati. Le bare che costruiva il vecchio Adolfo, non erano artistiche e neppure di legno pregiato, un po' perché erano destinate a persone modeste finanziariamente, ed anche perché dovevano essere collocate nella terra e marcire assieme  poveri defunti. Ora invece il cimitero e stato rifornito di loculi ove sono custodite bare anche pregiate per il legno e la lavorazione.
Olga qualche volta si scusava per il ritardo con cui arrivava dalle amiche perché, come lei diceva: "Scusate il mio ritardo ma oggi sono morta!". Non era morta perché era lì che parlava e sorrideva, ma aveva dovuto servire al padre come misura per la costruzione di una bara. Sapevamo già che quando vi era in paese un defunto, Olga veniva con ritardo. A volte mi aiutava nella confezione di qualche facile vestito estivo in cui mi cimentavo con la pretesa di riuscirvi. Ma il più delle volte era Olga che lo faceva perché, come lei diceva ammiccando affettuosamente, io ero una sarta sfinita, cioè non finita. Infatti io sapevo fare poco come sarta. Cara Olga, anche lei col suo viso sempre rosso di fuoco e dalla figura piuttosto irregolare, aveva un cuore generoso, sensibile e gentile! Si sposò dopo i trentacinque anni con un contadino di Campiglia che la lasciò vedova dopo poco. Un residuo bellico lo aveva ucciso.
Olga aveva perduto il brio consueto ed il sorriso sempre pronto e chiassoso di un tempo. Si spense lei pure dopo poco.
Rina era maestra e mia coetanea. Con lei ci facevamo poca compagnia perché sua madre, anch'essa maestra e mia prima insegnante, le proibiva di uscire di casa per frequentare le amiche e coetanee. Rina abitava in una bella villa davanti a casa mia e poteva rimanere all'aria aperta a suo piacimento anche l'intera giornata, in mezzo alle aiuole ricolme di tanti fiori bellissimi e profumati. Sul retro della villa un immenso orto, ove il profumo dei sedani, dei cavolfiori, dei carciofi, del basilico, del prezzemolo, della salvia, del rosmarino e della lavanda si confondevano in un soavissimo odore di campagna, di terra, di fieno, di sole.
Rina giocava a farsi rincorrere dal suo grosso cane da guardia, Fido. Fido era un bel cane, con mantello a pelo lungo, bianco a chiazze nere sul muso e sulla schiena, orecchie lunghe e penzolanti su quella grossa testa sempre attenta alla scoperta del suo eventuale nemico.
Rina aveva anche due fratelli. Orlando e Roberto, di qualche anno più grandi di lei. Loro venivano spesso sulla piazza a giocare con me ed Irma. Chiacchieravamo e giocavamo molto da bambini ad un gioco che chiamavamo "alla piastrella". Giocavamo per ore ed ore spingendo con la punta della scarpa la piastrella, reggendoci su una sola gamba e procurando anche qualche danno alle nostre scarpe, spellate in punta, che ci causavano a volte sgridate o scapaccioni da parte dei genitori, ma a noi piaceva il gioco della piastrella e lo ripetevamo ogni giorno.
La mamma di questi miei compagni di giochi era assai affettuosa oltre a essere una brava maestra, ma dominata da quegli sciocchi pregiudizi per cui le ragazze dovevano rimanere sempre lontano dagli uomini i quali avrebbero potuto contaminarle nell'animo e nel corpo e specialmente in riferimento al luogo ove vivevamo io e le mie sorelle. Il ristorante. Questo luogo per la mia cara e buona insegnante era giudicato pericoloso per la figlia, perché frequentato specialmente da uomini. Rina mi parlava del proibizionismo materno, si scusava di non poter prendere parte lei pure all'allegra compagnia delle coetanee ed amiche e non mancava di detestare il ragionare di sua madre.
A tredici anni avevo letto il romanzo di Paolo Mantegazza intitolato "Un giorno a Madera" e mi commosse, lo diedi a Rina che lo lesse nascostamente dalla madre e dal padre, un santo uomo lui pure papà Olivio. La lettura del romanzo mi fu consigliata da una insegnante anziana e religiosissima, perciò credetti non vi fosse nulla d'immorale in quelle letture traboccanti di sentimenti umani delicati e dignitosi dei due innamorati, perché l'amore, specialmente nell'adolescenza, è un sentimento normale che alimenta lo spirito quando esso è puro. Con il mio comportamento avevo giudicato la mia maestra molto più istruita di me.
In verità, per lei nutrivo tanto affetto, la stimavo moltissimo, sentivo, di doverle qualcosa perché proprio lei tanto paziente e buona mi aveva aperta la via allo studio. Quando la incontravo per via mi chiedeva dei miei studi, capivo che partecipava con piacere ai miei piccoli miglioramenti e non mancava di darmi sempre saggi e  materni consigli.
In questo quadro semplice e familiare si muovevano anche i miei fratellini, ultimi della nidiata, e davano loro pure il tocco, direi quasi, d'ilarità ed in qualche occasione di buon senso. A completare l'arca di tutti i nostri animali domestici si aggiunsero un  cane ed un gatto. Il cane era una femmina piccola di una certa razza che non saprei proprio definire. Aveva il pelo color nocciola un po' lunghetto e quasi ondulato, orecchie piccole e musetto aguzzo come i volpini; la portò Mario quando viaggiava sui transatlantici. Apparteneva ad una cucciolata di piccoli nati nel piroscafo quando era di passaggio a Las Palmas. Era tanto piccola quando arrivò a casa nostra, che Teresa Maria le assegnò per cuccia una piccola scatola da scarpe. Era lei a prendersi cura della bestiola e volle chiamarla Lola. Lola crebbe assieme ad un gattino nero arrivato poco prima ed archiviando le antiche discordie che hanno sempre diviso le due razze; Lola e Capino familiarizzarono subito e andarono sempre d'accordo come veri fratelli. Il  gattino mangiava insieme a Lola nella medesima scodella e naturalmente spesso restava a pancia vuota essendo la cagnetta più svelta di lui. A distribuire equamente i pasti ai due pensava sempre Teresa Maria chiudendo la porta di cucina quando Capino iniziava il pranzo ed a metà pranzo anche a Lola era permesso entrarvi.
Capino era diventato grosso e faceva il sornione trascorrendo tutta la giornata acciambellato su di un vecchio cuscino di piume vicino al caminetto. Le due bestiole andavano a gara per occupare per primi il cuscino ma quando arrivava il secondo il primo gli cedeva un po' di spazio, anche se a malavoglia. Non si poteva sbagliare: un garbato guaito  un tenue miagolio volevano dire:  "Tirati un po' più in là che debbo riposare io pure!".
Capino era anche il compagno di giochi di Teresa Maria. Nelle giornate di primavera andavano sulla piazza antistante a giocare. Correvano dietro ad una pallina di stracci che la bimba lanciava lontano, la facevano rotolare sul prato e sulla terra.
Lola riportava la palla a Teresa Maria affinché la rilanciasse, mentre Capino si arrampicava soddisfatto sulla grossa pianta di acacia che gettava ombra sulla casa. Quando le due bestiole si esibivano in queste loro acrobazie volevano anche esternare la gioia che provavano. Lola abbaiava e tra una corsa e l'altra puntava le sue zampette, anteriori sull'albero fissando Capino e scodinzolando. Capino, accosciato sull'incavo che il tronco forma con l'attaccatura del ramo più grosso, osservava la cagnetta facendo compiere alla sua coda semicerchi nell'aria in segno di gioia. Come tutti i gatti, anche Capino andava a fare qualche sopralluogo nei campi vicini, forse in cerca dell'erba che prediligeva come medicamento quotidiano. Si, dico medicamento, perché istintivamente i gatti mangiano anche un po' di erba. Sono carnivori per la loro alimentazione preminente, ma la natura provvida, da ad ogni sua creatura nozioni segrete per la conservazione della vita e della specie.
A volte Capino rimaneva assente da casa anche una giornata intera, poi arrivava affamato e graffiato. Reduce certamente da qualche lotta sostenuta con un altro gatto per la conquista di una femmina. Dopo una di queste assenze Capino divenne più malandato del solito, rifiutò il cibo per vari giorni, il pelo nero e lucido divenne più rado e scolorito ed una mattina Teresa Maria lo trovò morto vicino alla porta di casa. Che avesse mangiato qualche tralcio di erba velenosa? Oppure qualche morso o graffio di un altro gatto? La bambina pianse per 1a perdita del suo compagno di giochi ed assieme ad altre bimbe del vicinato fece il funerale a Capino.
Fu messo dentro ad una scatola da scarpe, dopo averlo avvolto in un foglio di carta colorata e sotterrato nell'orto vicino ad un cespuglio di dalie in fiore. La piccola fossa di Capino era tenuta in grande considerazione dalla bambina che vi aveva perfino collocato sopra una rustica croce fatta da lei con due pezzetti di arbusti legati insieme. Lola era rimasta sola e penso che sentisse la mancanza del suo amico perché a volte guaiva e restava inorecchita come se sentisse ancora Capino che graffiava sulla porta per farsi aprire. Lola diventò mamma diverse volte e come tutte le creature di questo mondo invecchiò.
Le mie sorelle Irma ed Ines ed io, avevamo lasciata la casa sposandoci. Ritornavamo a fare brevi visite alla mamma, al babbo, alle sorelle più piccole ed ai fratelli. Lola ci vedeva di rado, ma ci voleva ancora bene. Ci correva incontro come quando eravamo signorine e implorava le nostre carezze. Noi ora eravamo mamme, tenevamo fra le nostre braccia i bimbi che erano vezzeggiati non solo da noi, ma anche dalla nonna. La cagnetta osservava ogni nostra mossa, capiva che i bimbi avevano preso il suo posto nel nostro cuore, e soffriva. Si alzava ritta sulle zampe posteriori emettendo piccoli guaiti e scodinzolando. Era questo il suo modo di richiamarci dato che non sempre ci ricordavamo di lei. Quando capiva di essere stata abbandonata, si ritirava in un angolo della cucina e piangeva, piangeva fino a farci accorrere. Istantaneamente il suo pianto si tramutava in gioia sentendosi accarezzare, ma, siccome non la prendevamo più in braccio per osservare le regole igieniche verso i nostri piccoli che erano ancora poppanti, lei compiva salti altissimi fino a raggiungere l'altezza del nostro viso per leccarci e dirci tutta la sua riconoscenza. Quando morì Lola aveva dodici anni di età ed era affetta da un tumore alle mammelle, come disse il veterinario.
                                                                             (CONTINUA)

 

Riportiamo la recensione, che all'epoca accompagnò l'uscita del libro :

Questo romanzo vuol rappresentare attraverso esperienze familiari, la vita di un piccolo paese della Liguria. La narrazione attenta e particolareggiata, ha come sfondo le vicende politiche dei due ultimi conflitti mondiali, che costringono l'autrice e la sua famiglia ad affrontare svariate esperienze. I disagi dell'ultima guerra la obbligano, però ad allontanarsi dal suo luogo natio, sicché il libro finisce per diventare la storia di una famiglia che come tante altre cerca di superare i disagi di una situazione storica particolarmente difficile. Forse per questi motivo i ricordi dell'infanzia le ritornano alla memoria con particolare dolcezza: la casa paterna, la pineta, luogo di tanti incontri, il piazzale affacciato sui due mari, il piccolo paese dalle viuzze sassose che si inerpicano di scalino in scalino sul monte. Tutti questi luoghi fanno da sfondo ai personaggi di un mondo semplice e contadino, alle ottocentesche figure dei nonni, simbolo di un'epoca che stava ormai per tramontare. Lontani nel tempo e così estranei a quel turbine di vicende che poco tempo dopo avrebbero travolto l'Europa, questi ricordi sono il solo rifugio a cui ricorre dinanzi all'insicurezza e alla crudeltà del presente. Una storia, dunque, che, pur priva di casi eccezionali, può essere ugualmente assunta a testimonianza di un periodo storico di cui ancora oggi vediamo impresse le tristi conseguenze. (Anno 1976)

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Ultimo aggiornamento: 14-01-08